The Soft Moon | Un sabba sonoro al Lanificio 25 di Napoli

Arriviamo al Lanificio 25 in un venerdì sera che sarà l’inizio di una settimana che, come si usa dire da queste parti non vedrà mai alzare acqua da terra. È il clima giusto in fondo per una delle band più dark che ci sono in circolazione a partire dal folgorante omonimo esordio del 2010. The Soft Moon è la creatura sonora nata dalle idiosincrasie, dai dolori, dalle angosce e dal mal di vivere del californiano di origini cubane Luis Vasquez. Ci accoglie, sotto la pioggia battente, il grande portone con la scritta incisa nella pietra del vecchio polo per la lavorazione della lana del diciottesimo secolo e veniamo assorbiti dal cortile umido e buio, una volta insula quattrocentesca dell’adiacente Chiesa di Santa Caterina a Formiello, in pieno centro storico partenopeo. Seguiamo come sempre la luce che conduce all’ingresso prima di affacciarci sull’altro cortile illuminato dalle caratteristiche luminarie quando iniziamo a sentire in lontananza il cuore del locale che romba musica cupa e discontinua. Sul palco, col pubblico che occupa già mezza sala in riverente silenzio, c’è SΛRIN, dj berlinese e brillante alfiere della EBM (Electronic Body Music) mescolata a techno e industrial. Porta sul volto un passamontagna di pelle nera che lo fa apparire un incrocio piuttosto inquietante tra un esponente della luche libre messicana e qualcuno pronto a partecipare a un’orgia BSDM. I beat cupi e ossessivi della sua performance accompagnano i Soft Moon nelle quattro date del loro tour italiano; complice il buio, la durezza della musica, i toni oscuri della sua voce che sovrappone alla musica aprendo una cerniera sulla bocca altrimenti chiusa dalla maschera, la smerigliatrice con cui, in un tentativo di arte concettuale, decide di diffondere scintille infuocate sulle prime file, il Lanificio 25 sembra sempre più progredire nella dimensione di un antro luciferino che prepara il campo al sabba sonoro dei Soft Moon.

C’è grande attesa per loro, ospiti a Napoli stasera, per presentare il nuovo disco Criminal, dalle sonorità più industrial, cupe e arrabbiate rispetto ai lavori precedenti, come ci ha raccontato lo stesso Luis in una recente intervista.

I tre musicisti salgono sul palco accolti dal boato della folla accorsa a vederli. Luis Vasquez, band leader e padre assoluto del progetto, occupa il centro del palco vestito di nero e indossando una t-shirt dei Suicidal Tendencies, band punk metal statunitense, tra le sue chitarre e il synth. Sempre un passo dietro di lui alla destra del palco c’è Luigi Pianezzola al basso e più dietro alla batteria e alle percussioni l’altro italiano, Matteo Vallicelli, musicista versatile con un passato di hardcore, punk, garage rock e un futuro nell’elettronica. The Soft Moon è diventato, a partire dall’esordio del 2010, un progetto sempre più internazionale. Nata come una one man band, ha visto alternarsi già diverse formazioni soprattutto per la dimensione live fino alla lineup attuale. Ma The Soft Moon prima ancora di un progetto musicale è la messa a nudo dell’anima e dei tormenti di Luis Vasquez, il suo incubo sulfureo dove, negli anni, si sono mescolati punk e post punk, new wave e dark wave, krautrock e industrial fino a lambire i confini dello shoegaze e di una cupa psichedelia.  Un progetto che, nonostante le premesse, poco o nulla ha di derivativo grazie alla spinta fortissima, alla generosità e all’onestà con cui Vasquez, vero medium e artista sciamanico, è stato da sempre in grado di trasferire in musica l’ampio spettro di emozioni che ne turbano veglia e sonno.

La band parte fortissimo con Criminal che dà il titolo al nuovo lavoro per la prima volta su etichetta Sacred Bones Records. It’s the way I cross the line / It’s the way I open / It’s the way to my decline / It’s the way I’m broken – canta Vasquez mettendo subito in chiaro, su un basso ostinato e in un’atmosfera industrial wave, lo spirito cupo e decadente che attraversa l’intero lavoro. Dopo la prima strofa entrano synth e drum elettronico che fanno precipitare il Lanificio in una dimensione da club oscuro e pulsante.

Tocca quindi a due brani dal ruvido esordio, un disco diretto e immediato, scritto per un bisogno personale senza nemmeno immaginare la presenza di un pubblico sul quale, invece, stasera un instancabile Vasquez riversa tutta la forza della sua energia: Dead Love è un’invocazione – don’t leave me all alone – cupa e incessante che cerca disperatamente il contatto con l’altro, costruita su un tappeto sonoro tra basso e synth che deve tantissimo ai Joy Division di Ian Curtis e si spegne nelle urla finali di Vasquez, spettrali anche grazie alla scelta visiva di alternare il buio più intenso a un’illuminazione minimale che dosa il giallo dei fari posati a terra con i colori del blu e del rosso e soprattutto il bianco accecante e intermittente degli schermi led ai piedi dei musicisti.

Circles viene fuori in tutta la sua intensità strumentale con un incedere molto più ritmico, capace di mescolare splendidamente elettronica e tribalismo industrial e che vede Vasquez a battere prima le bacchette su un bidone di metallo come i primissimi Einstürzende Neubauten, quindi a strofinare le corde della sua chitarra contro l’asta del microfono.

Luis Vasquez è il frontman perfetto per una serata come questa, la sua irrequietezza gli impedisce di stare fermo per un solo istante, una frenesia di movimenti, suoni e luci che rendono il suo un corpo elettrico che si lascia percorrere da suoni e inquietudini, offrendosi come in un sacrificio di se stesso all’ispirazione artistica che lo domina, mentre Pianezzola occupa il palco in maniera più ieratica grazie anche al fisico che domina lo spazio e Vallicelli inevitabilmente più costretto dietro la batteria.  È tempo di tornare al nuovo lavoro con Burn e Choke, i due pezzi che aprono Criminal e siamo subito immersi nelle nuove sonorità con Vallicelli a picchiar duro sulle pelli mentre Vasquez sembra posseduto dallo spirito di Trent Reznor.

Burn si apre con una spaventosa scarica quasi techno per poi proseguire su linee prima ballabili quindi di forte impatto industrial mentre le luci si fanno sempre più frenetiche, trasformando il Lanificio in un grande rave party mentre Vallicelli aumenta spaventosamente i suoi bpm. Su Choke, una spirale verso il basso molto più cupa – I live high / Down with life – girone infernale fatto di fumo, fuochi fatui e metalli roventi, attraversato a scatti da elementi percussivi e ossessivi, Vallicelli si sposta direttamente al drum set elettronico.

C’è spazio anche per Total Decay dall’Ep del 2011 che ampliava il suono più ruvido e diretto degli esordi verso atmosfere shoegaze e territori lisergici. Dall’album Zeros del 2012, ecco Zero, brano all’epoca rappresentativo di una nuova direzione, di quell’approccio fatto di continui spostamenti laterali con cui Vasquez riesce a mantenere la corsa del suo progetto musicale nonostante i deragliamenti cui lo sottopone. È un pezzo che richiama di più gli anni ottanta e che si fa carico di una più evidente velocità con linee sonore meno fosche e più pulite, caratterizzate da accelerazioni improvvise che si avvolgono su se stesse in un finale di matrice noise. Tiny Spiders è il ritorno cupo al primo lavoro, tra incursioni di batteria e suoni synth che costruiscono incubi che risalgono lungo la schiena, sotto i soffitti e tra le anguste pareti della mente tormentata da angosce, paure e visioni apocalittiche – Were going down the road to tiny cities made of ashes / I’m going to hit you on the face / I’m going to punch you in your glasses / I’m wearing myself a t-shirt that says / The world is my ashtray.

Like a Father, ancora dal nuovo album, è un impressionante muro industrial riversato sul pubblico, un pezzo oppressivo, plumbeo, grido disperato – This guilt is a problem / You’re the ghost of my problem / This hate is a problem / You’re the ghost of my problem / This head is a problem / You’re the ghost of my problem – e, insieme, confessione di fragilità verso la figura del padre, inesistente e assente, mai conosciuto e mai cercato, che ha tracciato solchi terribili di paura e insicurezza nel musicista e autore di origini cubane.

Give Something, forse il brano più bello dell’ultimo disco e tra i migliori di sempre di Vasquez, è un canto di disperazione e bisogno che si scioglie dentro l’impossibilità d’amare – You give something / When I give nothing / When I’m on my own / I could give up the ghost / Cuz I don’t wanna lose my mind / That’s why I keep you so close – sintesi eccezionale in un inedito approccio quasi pop, capace di far convivere un ritmo marziale e preciso con un’elettronica dal gusto analogico della Berlino degli anni settanta.

Forte è l’influenza dei Kraftwerk nella successiva e aggressiva Far, dal terzo album Deeper, tra i più belli dei Soft Moon, scritto mentre Vasquez era a Venezia, tappa italiana prima degli ultimi cinque anni vissuti a Berlino, con la sua avanzata così electronic wave e con la sezione ritmica a disegnare nello spazio un treno lanciato a folle velocità verso una destinazione impossibile da raggiungere – Take me far away / To escape myself / I was born to suffer / And it kills my mind / It kills me inside / Happens all the time.

Il Lanificio è ormai un tutt’uno col palco, una bolgia ipnotizzata quasi dall’intensità dei tre musicisti. Non c’è un solo attimo di stasi, tutto batte insieme alle pulsazioni di musica e luci sul palco, con le vibrazioni potenti dei bassi che prendono alla bocca dello stomaco a ricordare che esiste una musica come questa che non sposta solo molecole nell’aria, ma entra dritta nelle viscere, sotto pelle, che spinge la pressione sanguigna.

Tocca ancora alle atmosfere più rarefatte di Young come anche al tribalismo robotico che riveste l’ossatura malata di Wrong – I’m in control of my existence / This pain I feel inside won’t die. Colpi secchi e ripetuti introducono la dark wave di Into the depths fino alle urla finali di Vasquez che si erge sul palco come un muezzin disperato alla fine del mondo a precedere i ritmi più accesi di The PainHow can you love someone like me / How can you touch / Make myself bleed.

C’è infine spazio per due brani da Zeros, più ballabili e maggiormente influenzati dalle atmosfere eighties, come Insides e Die Life prima  che la band abbandoni il palco per pochi istanti per essere subito richiamata a gran voce dal pubblico. Restano due grandi classici che infiammano la folla. Sono la cupissima Black ancora da Deeper con il suo incedere marziale e la sua dichiarazione d’indipendenza – I don’t care what you say, you say / Living life my own way, own way e, infine, Want col suo tribalismo kraut (gli Amon Düül nacquero intorno a una comune di percussionisti a Monaco di Baviera). Non poteva esserci commiato migliore, Vasquez prende il bidone di ferro e lo porta davanti al palco dando vita a una percussione continua, implacabile, eccessiva, un sabba di suoni, di profondità, di umori e d’istinti primordiali che si diffondono nella sala buia, dentro a un’atmosfera satura di elettricità, di estasi, di ritmi ossessivi e di autentico piacere.

Tutte le foto sono di Serena Mastroserio

Scaletta:

  1. Criminal
  2. Dead Love
  3. Circles
  4. Burn
  5. Choke
  6. Total Decay
  7. Zero
  8. Like a Father
  9. Give Something
  10. Far
  11. Young
  12. Wrong
  13. Into the Depths
  14. The Pain
  15. Insides
  16. Die Life

Encore:

  1. Black
  2. Want
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