Se nel classico garage di turno di New York City, una qualsiasi band talentuosa si mettesse a suonare con l’intenzione di fare un disco alla National, con buona probabilità quel disco sarebbe “Trouble Will Find Me”. Sono duri gli inizi per un gruppo: il parto di un’idea originale, la continua ricerca di una personalità, la voglia di non sentirsi mai scontati. I National negli ultimi anni hanno attraversato tutti questi stati, trasformandosi in una band dal successo globale, senza intaccare la loro più grossa e indiscutibile qualità: la personalità. Se la sono giocata, in tutti i modi possibili, abbinando il gusto per la raffinatezza melodica con la voce cavernosa del leader Matt Berninger. Hanno alternato i riff orchestrali e corali dei fratelli Dessner con cavalcate gonfie di pathos e rabbia degne della migliore tradizione post-punk.
Ed eccoli arrivati al giro di boa i nostri: “Trouble Will Find Me” si riempie di ospiti/amici (da Sufjan Stevens a St. Vincent) e si rivolge ad un pubblico molto più ampio dei precendenti lavori. E probabilmente proprio per questo, non si concede il rischio di osare e finisce per suonare come un album già sentito, stanco, che non sembra aggiungere nè togliere nulla alla band di Brooklyn. Non è un disco brutto, intendiamoci, è solo che ripete all’infinito gli schemi a cui i cinque ci hanno abituato da un po’ di tempo a questa parte. Se l’apertura di I should live in salt fa ben sperare, con i successivi tre brani la sensazione del già sentito si fa forte: la ballata Demons che anticipa il disco è leggermente giù di corda e Don’t swallow the cap è quel brano presente in ogni loro disco, con la stessa linea di batteria di sempre suonata fino alla nausea e lo scioglilingua ammaliatore che in fin dei conti conquista, ma ci ricorda fin troppo le cavalcate ipnotiche di “High Violet” e gli episodi più ispirati dei precedenti capitoli.
Il romanticismo e tutte le sue declinazioni sembrano essere i veri e propri leit motiv del disco, insieme alle melodie, che non mancano mai e che quasi sempre finiscono per restarti immediatamente in testa (che sia merito del fatto che anche queste ultime è da un po’ che non si rinnovano?). Fatto sta che non ci sono episodi particolarmente cattivi in questo disco, ma solo uno spesso strato di noia generale che avvolge i brani come una nube minacciosa
Bisogna arrivare alla seconda parte dell’album per trovare gli episodi maggiormente degni di nota, come la notturna nenia di Slipped che ti accarezza con la sua voluttuosità o la successiva I Need My Girl, in cui le drum machines di Sufjan Stevens accompagnano un Matt particolarmente scuro. La riflessiva Humiliation apre la strada per Pink Rabbits, probabilmente il brano dal sound più originale e meno riconducibile ad episodi precedenti, elegante nel suo tappeto di suoni sintetici. Il cantato biascicato e gli arpeggi di Hard To Find chiudono l’album lasciando in bocca una sensazione non totalmente appagante.
Tuttavia non preoccupatevi, i National non sono morti, sono vivi e vegeti. Hanno solo rimandato un passo importante, hanno preferito cullarsi ancora un po’ sugli allori del successo, piuttosto che virare verso una doverosa ed attesa evoluzione. Si sono presi un po’ di tempo in più, probabilmente non sfruttando a dovere l’opportunità di parlare a un pubblico vastissimo di estimatori con un linguaggio totalmente rinnovato.
Restiamo in attesa e vediamo quante emozioni sapranno regalarci dal vivo.
4AD, 2013
Tracklist:
- I Should Live in Salt
- Demons
- Don’t Swallow the Cap
- Fireproof
- Sea of Love
- Heavenfaced
- This is the Last Time
- Graceless
- Slipped
- I Need My Girl
- Humiliation
- Pink Rabbits
- Hard to Find