I National hanno annunciato l’uscita del loro settimo album per il prossimo 8 Settembre, si chiama Sleep Well Beast e c’è già un nuovo singolo ad anticiparlo, The System Only Dreams in Total Darkness, più gli annunci delle date del tour mondiale (niente Italia per ora, signori). Ne approfittiamo per un viaggio nella loro discografia.
Ho iniziato a sentire veramente i National ai tempi di Boxer, tempi in cui nel panorama della musica newyorkese c’erano belle band, come i Walkmen di Hamilton Leithauser e i più conosciuti Interpol. L’indie rock viveva ancora una bella stagione, i National (che venivano dall’Ohio ma erano attivi a NY) uscivano per la Beggars Banquet Records, i Walkmen per la Gigantic, gli Interpol per la Matador (la parantesi Capitol Records non gli portò bene).
Era una stagione viva – dicevamo -, Interpol e National rispolveravano atmosfere post-punk per l’era dell’indie rock, riadattando i suoni ai tempi nuovi. I Walkmen erano pura scarica di chitarre indie rock, la voce di Leithauser riprendeva invece il Dylan degli inizi per trascinarlo direttamente nei Duemila come un vecchio fantasma che non muore. Nello stesso periodo c’erano anche gli Strokes attivi a New York, che con Is This It del 2001 erano stati tra gli apripista dell’avanzata dell’indie rock. Poi ognuno aveva preso a svilupparla quella direzione, a suo modo, i Liars mescolandoci atmosfere più noise, e batterie potenti, i Rapture facendo ballare, gli Yeah Yeah Yeahs costruendo suoni intorno alla voce di Karen O.
Il primo disco dei National arriva nell’ottobre 2001 in questo contesto, e non è un capolavoro indimenticabile. Dei fratelli Dessner c’è solo Aaron, la band deve ancora scoprire il suo sound, così – anche se la voce di Berniger è già affilata – The National non riceve ancora grande attenzione. Pitchfork ne parla come di un disco dei Silver Jews ma a cui manca il carisma del frontman dei Silver Jews. Chi l’avrebbe detto che poi Matt sarebbe avrebbe risposto esplosivamente con il carisma dell’ubriaco che durante i live si fa il giro sottopalco tra la folla, chi l’avrebbe detto che sarebbe rimasto uno dei pochi a fare stage diving e dimenarsi col pubblico.
Con il secondo album, Sad Songs for Dirty Lovers, ci siamo: i National stanno trovando la direzione. I fratelli Dessner entrano in formazione fissa, e i testi colpiscono nel segno. Cardinal Song che apre l’album è simbolica della scrittura di Matt Berninger in questo senso: “Never look her in the eyes / Never tell the truth / If she knows your paper/ You know she’ll have to burn you“. I suoi démoni prendono forma, la canzone cardinale di Berninger è un’invocazione al suo caos e una richiesta di perdono: “Forgive me girls I am confused / Stiff and pissed and lost and loose“.
La chitarra che apre 90-Mile Water Wall ci porta nel tortuoso mondo ubriaco di Berninger, mentre in Available i ritmi si accelerano (evocando alcune esplosioni che accadranno più avanti), per concludere il tutto con la ballata struggente Lucky You. In Sad Song for Dirty Lovers i National stanno costruendo il loro suono e la loro direzione.
È con Alligator che trovano se stessi. Mentre gli Interpol di Paul Banks hanno già fatto uscire Turn On the Bright Lights e Antics, dettando il ritmo alla generazione dark wave della scena indie, al terzo album il sound National trova una sua consacrazione e la voce di Berninger una perfetta intonazione. Secret Meeting, Karen, Looking For Astronauts, i pezzi dalle atmosfere National si susseguono l’uno dopo l’altro, i giri di chitarra riconoscibili, il pianoforte tetro, la voce roca di Matt che sciorina parole su ritornelli catchy. Da qui in poi i National iniziano ad attaccarsi al cervello.
Prendiamo un pezzo come Baby, We’ll be Fine, e quante volte Berninger ripete in cantilena “I’m so sorry for everything” senza stancarci, con un’ossessività alla Bill Callahan. È come se i National avessero trovato il modo per divulgare la loro parola, per rendere accattivante il disagio del cantautore errante, il racconto di un jack e cola che cade dentro il colletto della giacca, versato da una donna.
Il pezzo che sarà la fortuna dei National diventa però quel Mr. November, che poi andrà anche a supporto della campagna elettorale di Obama qualche tempo dopo. Mr. November è il pezzo dove Berninger dal vivo ai live dei National si scatena di più, il pezzo che li rende conosciuti al grande pubblico, con un unico grande mantra: “I won’t fuck us over, I’m Mr. November / I’m Mr. November, I won’t fuck us over“.
2007, Boxer. Ancora oggi lo riascolto come uno di quegli album che non se ne sono mai davvero andati dal cervello. Probabilmente il disco più bello e originale (e post-punk) della band dell’Ohio. Il disco che condensa le ossessioni scure di suoni e testi, che racconta il disagio post-esistenziale di quell’epoca. Se Mr. November era l’enigma della speranza, Boxer ha buttato la mia generazione in una spirale di perdizione. Recentemente ho perso il polso con le nuove tendenze dell’industria culturale musicale, non me ne vogliate ma in gruppi come Interpol e National c’era qualcosa di sincero anche quando provavano a venire fuori dal recinto indie. Quando risento dischi come Boxer (o Turn On The Bright Lights) la cosa mi è particolarmente chiara: si tratta di album che, anche uscendo dai classici circuiti alternative sono rimasti alternative, hanno saputo raccontare i nostri mondi oscuri, le nostre ansie, la nostra anima arroventata figlia dei tempi tetri.
Il nostro personale Fake Empire. Ci siamo tutti dentro questo impero fasullo, continuiamo a restarci dentro, “we’re half-awake in a fake empire“, con tutta la consapevolezza del mondo. Il fake empire di cui canta Berninger è l’era bushiana, ma possiamo dire che siamo mai davvero usciti fuori da questo fake empire con il tempo? C’è stato qualche altro cantore del nostro personale avvilito impero fasullo e le sue macerie? La disperazione e l’urgenza di questo momento bruciano in Boxer, esplodendo nel mantra di Squalor Victoria, nei ritmi della batteria che porta il tempo di questo disagio coi calici alzati al cielo. La sensazione di stare rinchiusi dentro un appartamento in compagnia di qualcuno per sfuggire il mondo è il racconto post-punk di Apartment Story, con ritmi alla Joy Division, e diventa il canto di un’epoca intrappolata nella televisione e i suoi ordini. Non ti preoccupare, canta Berninger, staremo bene, abbiamo i nostri look e i nostri profumi addosso.
Ma è inutile ignorare che il pezzo più conclamato dell’album sia una ballata d’amore, la riedizione di un testo preso dal primo disco, 29 Years. Parliamo di Slow Show, che insieme a Mr. November sancirà il successo verso il grande pubblico per i National. Dall’anthem alla ballad, la strada sembra spianata. E Berninger si può permettere di dare spazio alla sua vena da cantore romantico con un “You know I dreamed about you/ for twenty-nine years before I saw you“.
Con il successo di Boxer i National si concedono il tempo di far parte di una piccola compilation benefica a cui siamo affezionati, Dark Was the Night, del 2009, che raccoglieva nomi come Sufjan Stevens, Feist, Bon Iver, Dirty Projectors & David Byrne, Arcade Fire, Spoon, Cat Power, e faremmo notte a finire l’elenco. Raccoglieva insomma il meglio del panorama indie – o pseudo – di quella stagione felice. Poi l’anno dopo arriva High Violet, che parte in sordina per arrivare a poco a poco a divorare il cervello pure lui. Lo fa a colpi di stilettate come in Bloodbuzz Ohio, la terra nativa evocata, in cui le parole sono perfettamente studiate per entrare dentro la testa: “I still owe money to the money to the money I owe“.
Nonostante sia il 2010 il disagio dell’uomo medio americano bianco non è cambiato, e forse la cosa doveva darci una traccia su quello che sarebbe successo in futuro. L’amore è terribile, come in Terrible Love, disperato al punto di impiccarsi come in Vanderlyle Crybaby Geeks (che diventa poi pezzo di chiusura dei live della band). C’è ancora ansia e spavento, come nel pezzo più cupo del disco, Afraid Of Everyone. Le nostre conversazioni confuse, spezzate, caotiche, le nostre feste solo un momento tra tanti con cui distrarsi. Ci si canta tra Londra e Los Angeles in modo straziante.
Al sesto album c’è qualcuno che non conosce i National? Lo stile di Trouble Will Find Me ormai è quello che la band ha tracciato con i precedenti album, così Don’t Swallow The Cap è una collezione di vecchie ossessioni del gruppo, che si respira anche in pezzi più minimal come Fireproof. Ma la vera esplosione del Berninger-pensiero è in Graceless, accompagnato dai giri di batterie e chitarre: “I’m trying, but I am graceless“. Anche in questo album c’è spazio per un po’ di dissacrante romanticismo, è il caso di
I Need My Girl o in Pink Rabbit, due ballate in cui Matt si diverte a disegnare parole.
Il problema – arrivati a questo punto – è cercare di non copiarsi troppo, e per l’arrivo di Sleep Well Beast la preoccupazione più grande è proprio scongiurare questo pericolo. In un’intervista a Pitchfork la band ha provato a raccontare cosa dobbiamo aspettarci dal loro settimo lavoro. Sarà un album politico? “Impossibile separare le nostre canzoni da quello che succede nel mondo, in questo senso è un album politico“, dice Berninger. E a proposito del singolo che ha anticipato il disco aggiunge che si tratta di un ritratto astratto dei tempi in cui siamo invischiati. La canzone si chiama The System Only Dreams in Total Darkness, e ve la lasciamo qui sotto, per gradire.