Con meraviglia Aschenbach vide che il ragazzo era di una bellezza perfetta. Il suo viso, pallido e graziosamente chiuso, attorniato da ricci color del miele, col naso diritto, la bocca amabile, un’espressione di gentile e divina serietà, ricordava le sculture greche dei tempi più nobili, e accanto alla purissima perfezione della forma recava un fascino così unico e personale, che parve al riguardante di non aver mai veduto né in arte né in natura nulla di così felicemente riuscito.
Ci sono storie che attraversano come un fiume carsico il terreno del tempo. Acque chiare e lucenti che seducono con la freschezza della loro temperatura, con la trasparenza del loro blu intenso; distogliamo lo sguardo ed ecco che quel torrente giovane si nasconde improvviso ai nostri occhi, perso chissà dove. Lo cerchiamo per un po’, non ci facciamo più caso, lo dimentichiamo. Eppure quelle acque continuano a scorrere, nascoste alla nostra vista; sono in profondità, s’intorbidiscono, conoscono l’oscurità del sottosuolo fino a che qualcuno che non le ha dimenticate – che ancora vuole ricordare – inizia a scavare, restituendo loro il privilegio della luce del giorno.
Appare così la storia di Björn Andrésen, raccontata in uno splendido documentario dall’intrigante titolo di The most beautiful boy in the world, uscito a fine luglio e diretto dagli svedesi Kristina Lindström e Kristian Petri (per Mantaray Film) che narra la storia sconosciuta della vita del giovanissimo attore, eternato dal ruolo di Tadzio in Morte a Venezia di Luchino Visconti.
Da anni il grande regista, il nobile rosso nato a Milano nel 1906, prima tra i padri del neorealismo, quindi autore di capolavori quali Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo e La caduta degli dei, accarezzava l’idea di una trasposizione cinematografica del romanzo di Thomas Mann; operazione potenzialmente ostica, va detto, per un’opera in cui predominano la riflessione intimistica e l’analisi introspettiva a scapito di una vera e propria azione. Visconti sa – da uomo coltissimo e da grande regista teatrale e d’opera cui era – che cinematograficamente il suo film deve essere ancorato – sullo sfondo di una Venezia pestilenziale – da un leitmotiv che inchiodi lo spettatore allo schermo e sa che quella ragione può trovarla soltanto nel personaggio di Tadzio e nell’attore che lo interpreterà.
Comincia così, nel corso degli anni, una ricerca condotta attraverso un casting europeo – Ungheria, Polonia, Russia, paesi scandinavi – per trovare il fanciullo efebico la cui bellezza sottile e demoniaca farà precipitare la morale e la vita del professor Aschenbach, scrittore nel romanzo, compositore qui per esigenze sceniche ma anche per ricostruire episodi della vita di Gustav Mahler le cui musiche – in particolare il famoso Adagietto dalla Quinta Sinfonia (famoso, a dire il vero, soprattutto, per l’uso wagneriano che ne fa Visconti) – avranno il compito di far immergere lo spettatore nella resa languida e disperata di un uomo colto e solo al cospetto della bellezza del giovane e conturbante ospite, come lui, dell’Hotel des Bains al Lido di Venezia.
Un anno prima dell’uscita di Morte a Venezia – che per la sua tematica omosessuale fu osteggiato in un primo momento da produttori e distributori, per poi essere sdoganato dopo la prima londinese, cui prese parte senza battere ciglio Sua Maestà Elisabetta II – Visconti girò addirittura un documentario di mezzora – Alla ricerca di Tadzio – le cui immagini ritornano all’inizio del documentario di Lindström e Petri.
Che si apre però, e a lungo, su un campo nero riempito solo dalla voce di Björn Andrésen, bambino, che gioca con la nonna, quindi le immagini dei provini in Svezia, prima in una scuola, poi in un appartamento accanto al Grand Hotel di Stoccolma: qui, ragazzini biondi dagli occhi azzurri sfilano – quasi a ricordare Bellissima del 1951 con Anna Magnani – davanti al maestro e ai suoi collaboratori. Poi vediamo una porta bianca che sta per aprirsi e qualcuno che sta entrando nella stanza: e quelle riprese, viste oggi, ci appaiono come la testimonianza di un miracolo e allo stesso tempo – è giunto il momento di anticiparlo – l’inizio della tragedia personale di Andrésen.
Da quella porta bianca entra un ragazzo di appena quindici anni con i capelli biondi che ricadono su spalle sottili coperte da un dolcevita nero, gli occhi quasi orientali, grigi proprio come quelli di Tadzio “color dell’alba”; quando Visconti gli chiede di sorridere, quello che appare sul viso teso e pallido è un sorriso da bambino che mostra, però, già le inquietudini e la malizia di un adolescente. Visconti, ancora, gli chiederà di spogliarsi, di restare a torso nudo, di lasciarsi riprendere in primo piano, in campo lungo, di camminare nella sala piccola. È fatta: Visconti ha finalmente trovato il suo Tadzio.
Björn Andrésen è l’angelo della morte che Visconti aveva sempre cercato. Come racconta lo stesso attore svedese, le indicazioni che riceverà durante le riprese saranno essenziali e ripetitive: cammina, fermati, voltati, sorridi. In totale fedeltà con lo spirito del libro, Visconti non tradisce – ribellandosi alle volontà della produzione che voleva una ragazza al posto di Tadzio – la sensualità omosessuale che attraversa le pagine del libro; allo stesso modo non riduce – con l’eleganza incredibile che lo ha sempre contraddistinto – il personaggio di Tadzio alla mera sessualità, a una forma pur elevata di erotismo. La fascinazione di Tadzio su Aschenbach è una fascinazione d’anime, è lo stravolgimento davanti al potere della bellezza e della gioventù, della vita che si dipana ancora pura, mentre quella del vecchio maestro malato si avvia a un inesorabile e declinante crepuscolo. La morte del titolo, prima ancora che una morte fisica, è una morte intellettuale. E il Tadzio/Andrésen rispecchia esattamente questo: l’incanto di una bellezza acerba e quasi androgina che nel film lo porta a essere adorato – quasi fosse un piccolo idolo – da Aschenbach, certo, ma anche dalla governante che lo segue, dalle sorelle, dagli amici con cui gioca, da una madre che sembra, nel suo silenzio – una magnetica e intensa Silvana Mangano – bearsi della creazione splendente della sua stessa carne.
Visconti è autore dalla sensibilità estrema. È innamorato – cinematograficamente s’intende – del ragazzo che buca lo schermo. Lo protegge sul set, intimando addirittura alla sua troupe – interamente omosessuale – di lasciare in pace il ragazzo e di non provarci in alcun modo. Accoglie la presenza della nonna materna cui regalerà anche una piccola parte nel film; è sempre al fianco di Björn nelle interviste, nelle presentazioni durante i Festival e nei principali eventi cinematografici. Allo stesso modo lo lega a sé con un contratto di esclusiva triennale, gioca con quel volto bellissimo e con quel corpo perfetto – sottile, asciutto, innocente – ne decreta la bellezza assoluta. Consacrandola con la frase che dà il titolo al documentario: “Björn Andrésen? The most beautiful boy in the world.”
Visconti sa il turbamento della bellezza, ne conosce il potere, le trappole, la condanna. Conosce, soprattutto, il senso di soccombenza che si prova davanti alla bellezza altrui, quella reale, quella implacabile che non lascia scampo. Non sa, non può sapere forse, che quella bellezza, quella tenerezza, quella malizia innocente, quel sorriso da angelo della morte che compaiano sul volto del ragazzo svedese sono, però, già il frutto di una vita breve e difficile. Björn Andrésen non ha mai conosciuto suo padre. Sua madre, che gli ha dato una sorella con un altro uomo nata ad appena dieci mesi di distanza da Björn, non ne rivelerà mai l’identità. Donna dolcissima è, però, uno spirito libero: poetessa, fotografa, giornalista, modella per Dior, prestissimo lascerà entrambi i figli con la nonna per viaggiare alla ricerca di se stessa, guidata da un’inquietudine di cui sembra aver lasciato le tracce nel figlio maschio. Björn crescerà con la nonna e sarà lei, soprattutto, a cercare per i nipoti una ribalta, la musica prima, la grande passione di Björn – è commovente la scena in cui l’attore si siede ad ascoltare una sua registrazione di lui piccolo in cui, con chiaro talento, suona il celebre Notturno Op.9 N.2 di Chopin e nel suo silenzio sembra quasi immaginare una possibile svolta del suo destino, una vita diversa – il cinema poi.
Morte a Venezia non avrà un successo clamoroso di pubblico ma il volto angelico del suo protagonista deflagrerà a ogni latitudine trascinando un ragazzo timido e riservato sulle copertine dei giornali di tutto il mondo. Peggio, trasformandolo nell’oggetto del desiderio e di una ben più carnale bramosia che non ha chiesto e che, senza alcun potere di opporvisi – per età, per carattere, per contratto – si trova improvvisamente costretto a subire.
Cinematograficamente parlando alcuni tra i momenti più belli del documentario si svolgono nel silenzio dell’Hotel des Bains, meglio: in quello che ne resta, tra le sue rovine battute dalla pioggia veneziana, quasi una pioggia manzoniana che dalle oscurità dei suoi corridoi, delle sue stanze conduce Andrésen – ripreso spesso di spalle come l’eroe sconfitto di un ciclo di fiabe nordiche – verso i terrazzi con le loro colonne spezzate. I capelli lunghi e grigi sulle spalle, la magrezza che racconta della sua lotta contro l’anoressia, un volto espressivo e scavato sul quale però come dei lampi si colgono ancora gli echi dello stesso sorriso che fu di Tadzio, la stessa timidezza, la medesima consapevolezza di avere un corpo – nonostante se stesso – vivo. Quelle carrellate dagli interni agli esterni dell’Hotel sono forse una metafora della storia di Andrésen che ritrova luce e attenzione, di certo non si fanno metafora di un percorso dal buio alla luce, perché The most beautiful boy in the world non è il racconto di un percorso di salvezza bensì la storia di una frattura mai ricomposta.
C’è un momento in cui all’apice del successo, Andrésen viene portato da Visconti, insieme al suo entourage, a trascorrere una serata in un gay club esclusivo. Il suo racconto in presa diretta nel documentario, il ricordo nitido delle pareti rosse e nere, delle bocche e delle lingue che si muovono davanti ai suoi occhi mentre lui non sente niente, sconvolto dall’attenzione verso di sé, quella realizzazione improvvisa di essere diventato – grazie alla fama, a quel ruolo, alla capacità che ha il cinema di eternare un volto – lo turbarono al punto da spingerlo a bere per non ricordare più nulla. Non lascia trapelare altro e non dà motivo per immaginare altro. E allo stesso modo i due registi sono molto attenti a non costruire una replica al maschile dell’esperienza tormentata e complessa di Maria Schneider sul set di Ultimo Tango a Parigi di Bertolucci, facendo emergere, invece, quasi in maniera implicita, una riflessione, uno spunto sul potere del cinema da una parte e sul senso della bellezza dall’altro.
Kristina Lindström e Kristian Petri, quasi fossero due archeologi, nel raccontare la storia di Andrésen riportano a galla un mondo cinematografico che oggi non esiste più. Agli inizi degli anni settanta, quando al Festival di Cannes viene presentato Morte a Venezia siamo a un passo – per citare Verlaine – da un impero cinematografico ormai sull’orlo della decadenza, un universo di celluloide che di lì a poco sarà sempre più contaminato da dinamiche commerciali prima ancora che artistiche. Quello di Visconti per il romanzo di Mann non è un progetto di trasposizione, piuttosto un’ossessione comune a tutti i grandi registi. Un casting che duri anni solo per cercare l’attore perfetto è qualcosa d’impensabile nelle dinamiche produttive odierne. Le professionalità coinvolte, la cura maniacale dei dettagli – Visconti non ha mai permesso che se un attore dovesse aprire un cassetto sulla scena quel cassetto fosse vuoto, per dare una misura – la ricerca della perfezione che potesse restituire il senso più intrinseco dell’opera, si sono – spesso – perduti nel tempo. Certo, per una sorta di contrappasso, quest’ambizione da Icaro, aveva le sue cadute; e in primis molti attori hanno pagato un prezzo altissimo, sacrificati sull’altare del loro riconoscimento artistico, perché seguìto imprescindibilmente dalla ribalta incontrollabile della fama pubblica. La già citata Maria Schneider, il Malcolm McDowell di Arancia Meccanica, Andrésen: tutti pagheranno un prezzo elevatissimo al loro trionfo artistico. Tutti saranno oggetto di uno scambio faustiano tra le loro fragilità di donne e uomini e l’immagine eterna cui sono stati consegnati. Un Cinema così alto, una missione così nobile tale da rendere la vita stessa specchio del Cinema e non il contrario.
Si potrebbe obiettare che anche il cinema contemporaneo non è scevro da situazioni simili, del resto basterebbe pensare a dichiarazioni – pur controverse – di attrici quali Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos nei confronti del regista Abdellatif Kechiche – chiamato in causa anche dalla sua nuova musa Ophélie Bau – ma la grande differenza sta proprio nella distanza con quel mondo perduto, con un cinema che era al contempo di un livello e una qualità altissimi restando però popolare grazie alla diffusione capillare delle sale cinematografiche, al divismo dei tempi, al potere dei rotocalchi che trasformavano autori anche d’élite come Visconti o Antonioni in personaggi noti al grande pubblico attraverso il racconto della loro vita privata, delle frequentazioni nel jet set o delle loro forti prese di posizione politiche.
E allora dobbiamo immaginare un ragazzino di quindici anni, con le idee confuse, senza radici, con un profondo senso di abbandono, catapultato verso una popolarità per lui insostenibile. Una popolarità tale che – come raccontato sempre nel documentario – uno dei personaggi iconici della seconda metà del novecento – l’eroina francese, prima dei manga e poi dei cartoni, Lady Oscar – fu disegnato, per candida ammissione della stessa autrice Riyoko Ikeda, sulle fattezze del giovanissimo Tadzio, la cui bellezza influenzerà decine di disegnatori e autori giapponesi.
Ecco allora che in crudele gioco – forse inevitabile – la sopraffazione di cui Aschenbach è vittima nei confronti della bellezza incorrotta del ragazzo si trasforma – nella realtà – nella soccombenza di Andrésen sotto il peso della sua stessa bellezza e del potere irrefrenabile che il fascino esercita di là dal proprio controllo. Perché questo sembra insegnare la storia di Tadzio fuori dallo schermo bianco: una sorta di scarto incontrollabile che la bellezza produce e che – anche dove possa configurarsi come eterea o innocente – non può mai mantenere la stessa innocenza nei desideri che produce. Che la bellezza è una lama sottile, una ferita nella carne di chi la osserva, un urlo disperato, la vana ambizione di possedere qualcosa che, in ogni caso, non ci apparterrà mai. La bellezza come motore di un’insoddisfazione, e come tale, traccia indelebile di un desiderio destinato alla frustrazione.
Grazie a una regia asciutta e delicata che sa stare sempre un passo indietro di ogni possibile forma di morbosità o di pietismo, entriamo nella vita di un uomo che ha vissuto molte vite ed esperienze diverse, che voleva essere musicista – e oggi in qualche modo lo è diventato – che da attore per Visconti si trasformò in personaggio pop della scena musicale giapponese, che divenne padre senza mai essere stato davvero figlio. Un uomo fragile – commovente è il modo in cui si aggrappa, dolcissimo, alla forza di Jessica Vennberg, la sua compagna che prova a gestirgli una vita normale, lui che vive in una casa che – per il disordine e la sporcizia – con un sorriso definisce “una minaccia ambientale” – mentre si muove nella vita come un essere inconsapevole. Con una camera che lo segue quasi accarezzandolo, senza mai spingersi troppo in là, come nella scena in cui Andrésen ha, per la prima volta, accesso ai documenti autoptici sulla madre trovata morta nei boschi svedesi e che richiamano quella mattina in cui, bambini, lui e sua sorella, si ritrovarono due poliziotti in casa che comunicavano loro la tragica scomparsa di una donna ormai già assente e lontana.
Le ultime sequenze ci regalano delle immagini bellissime. Nelle ore del vespro, in una Venezia crepuscolare e sfacciatamente meravigliosa lo vediamo – vento in faccia – attraversare su un vaporetto il Canal Grande, il volto fierissimo che non lascia trapelare emozioni. Quasi che – nonostante tutto – Tadzio fosse ancora dentro lui – il suo mistero, il suo fascino, la sua innocente ambiguità. Un ragazzino inaccessibile che si è trasformato, dopo tante avversità, in un uomo che ancora non ha svelato la chiave di accesso a se stesso.