FOTO A CURA DI ANDREA BURATTI
Perché i Lumineers non sono soltanto Ho Hey e la pubblicità di un tablet Samsung. Ed è difficile crederlo perché, a volte, ci si abitua alle canzoni più famose di una band in base al prodotto a cui sono state associate e quando sentiamo Lemon Tree dei Fool’s Garden ci viene in mente il Limoncello o con Thubthumping, dei Chumbawamba, World Cup 98. Inevitabile che abbia condizionato anche l’arrivo al loro concerto sold out, in scena all’Estragon di Bologna.
Tra il freddo e l’ambientazione post apocalittica tipica dell’arena Parco Nord, dentro c’è pieno di camicie da boscaiolo e occhi pieni di attesa, che si muovono tra i bar e la calca, alla ricerca di una visione migliore. Si stanno già esibendo Thao & The Get Down Stay Down, band della San Francisco bene, dalle sonorità folk e quasi orientaleggianti, che vengono acclamati più volte dal pubblico durante il live di apertura, oltremodo lungo per giustificare i soldi spesi per un main event che non durerà più di un’ora e dieci. La musica felice e spensierata di questa band crea una dimensione che fa sciogliere il ghiaccio che si forma fuori, catapultandoti sulle spiagge calde del nord America. Il clima che formano continuerà a evolversi per tutta la serata, soprattutto all’arrivo dei Lumineers. Se la cavano bene questi californiani e vengono salutati con calore e affetto dalla gente che sembra pronta a emozionarsi per qualsiasi cosa, purché l’energia si mantenga pronta per l’arrivo dei loro beniamini.
Le porte continuano a buttare dentro sferzate di vento e persone, che non sembrano mai finire, la grandezza dello spazio non ti fa rendere conto davvero di quanti corpi possa contenere e, anche se ti ritrovi in fondo, riesci a vedere le luci che si spengono, l’arrivo sul palco di quei cinque ragazzi e i richiami delle prime file. Quando arrivano vengono sommersi dalle urla, un saluto rapido e dal pianoforte, ancora buio, escono le note di Submarines. Capisci che i ragazzi ci sanno fare e, quello che prima era solo un sospetto, con Ain’t Nobody’s Problem si rivela una verità, sei finito nella tua idea di feste di paese dell’America del folk, nell’immagine che ti sei fatto da bambino dei saloon e di come dev’essere la vita in un paesino sconosciuto vicino a Denver. L’ambiente ti lascia più sconvolto del saluto in italiano di Jeremiah Caleb Fraites, il batterista giullare che per tutto il concerto cambierà strumento e non starà mai fermo. E, poi, Jeremiah è sempre stato il nome che avresti dato all’uomo di American Gothic. Ma è la spensieratezza e l’energia che mettono sul palco a coinvolgerti, nonostante siano più gli smartphone ad alzarsi tra la folla che i corpi a muoversi. Flowers In Your Hair è soltanto un antipasto al ritmo successivo, perché l’intro di Ho Hey, che fa scoppiare in urla disperate i presenti, è la buonanotte che ti aspettavi. Ma i Lumineers si fermano, interrompono la canzone prima che inizi il cantato, e chiedono di alzare le luci dei cellulari, come anni fa si faceva con gli accendini. Pensi che sia coraggioso mettere la canzone più conosciuta così presto ed evitare che la gente aspetti tutto il concerto prima che arrivi così da far considerare le altre più di un semplice antefatto, che pochi altri gruppi lo avrebbero fatto con una canzone disco di platino. Il pubblico canta la prima strofa, i Lumineers si esaltano, il cappello di Wesley Keith Schultz si abbassa davanti al calore che gli viene dato, mentre Neyla Pekarek, seduta al violoncello si alza e ringrazia.
Il trio è visibilmente emozionato e parla un inglese troppo veloce per essere compreso e la partenza di Classy Girls è troppo rapida per aver tempo di pensare. E poi ti ritrovi davanti alla loro eccelsa versione di Subterranean Homesick Blues, che fai fatica a capire se sia effettivamente quella del menestrello Dylan. I toni rallentano un po’ con Dead Sea, Slow It Down e Duet/Falling, nuova canzone ma già presentata da tempo, e inizi a comprendere cosa deve significare trovarsi sbronzo a Denver, quando Darlene non voleva accettare il tuo anello o Elouise se ne andava, e non a una festa dell’Unità emiliana, ma che la differenza non è poi così grande. Il concerto si avvia verso la chiusura, senza che i Lumineers si risparmino. Fanno quello che amano e si capisce, la complicità fra di loro si vede anche da come si scambiano di strumenti. Nei loro pezzi, per quanto brevi, tutte le caratteristiche dei componenti risaltano.
Sembra che sia passato pochissimo tempo, e in effetti è così, le canzone sono poche e brevi, l’ambiente è grandioso ma le persone non si muovono troppo, oscillano è vero, ma rende tutto più intimo. Sei finito nel mondo del trio americano, che ha dato tutto quello che poteva, primo fra tutto Fraites, inarrestabile, forse il più apprezzabile da tutti, nonostante la grande voce di Schultz e la versatilità di tutti i componenti della band. C’è tempo anche per un encore, prima che tutto sia finito, ma la brevità non ti lascia soddisfatto, non tanto perché vorresti sentire di più, è perché quel salto negli States è finito troppo presto e il prezzo elevato del biglietto ti fa maledire la Samsung e la grandezza del locale che non ti ha permesso di godere di più del loro ritmo. Hanno tutto per soddisfare ogni palato, energia, sonorità e delicatezza, ma te ne vai un po’ insoddisfatto.
Setlist:
- Submarines
- Ain’t Nobody’s Problem
- Flowers in Your Hair
- Ho Hey
- Classy Girls
- Subterranean Homesick Blues (Bob Dylan cover)
- Dead Sea
- Slow It Down
- Duet
- Charlie Boy
- Darlene
- Elouise
- Stubborn Love
- Flapper Girl
- Birmingham
Encore:
- Morning Song
- Gale Song
- Big Parade