Garantitosi una cerchia di ammiratori nell’ambito di genere con il suo bellissimo esordio The VVitch, il giovane cineasta Robert Eggers torna a raccontare una storia horror ambientata in un passato segnato da suggestioni folkloriste e superstizioni con The Lighthouse. Dalla cupa campagna del New England di metà Seicento di The VVitch si passa alle isole Flannan di fine Ottocento, ma ritornano i temi della paranoia, della schizofrenia e dell’isolamento, qui mescolati a ispirazioni mitologiche (la leggenda del titano Prometeo) e a spunti letterari romantici (The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge).
L’essenziale script di Eggers – basato liberamente su fatti realmente accaduti inerenti la misteriosa scomparsa di tre guardiani del faro – è il fulcro attorno a cui gira l’estetizzazione allucinatoria dei disagi psicologici dei protagonisti, a metà tra il clima onirico di un Werner Herzog e il tono meditativo di Come in uno specchio di Bergman. Dotato di un impianto teatrale con poche location e pochi personaggi, The Lighthouse si regge sulle interpretazioni giganti di Willem Dafoe e Robert Pattinson, rispettivamente il burbero Thomas Wake e il giovane Ephraim Winslow, entrambi bloccati da una perenne e violentissima tempesta su uno scoglio sormontato da un maestoso faro. Wake è un marinaio spietato e arrogante che sottopone di continuo il compagno a lavori sempre umilianti, almeno finché la tensione non sfocia nel suo naturale e disumano esito, reso ancora più pericoloso dal loro abuso di alcool e dall’uccisione di un gabbiano, ritenuta da Wake un presagio di sventura conformemente alla tradizione marinara dell’epoca.
Il turbinio inarrestabile di sporcizia repulsiva, rabbia e isolamento “shininghiano” che puzza di acqua salata, sangue, urina ed escrementi si fa largo con tutta la crudeltà dell’ignoto con stile sublime, caratterizzato da un bianco e nero che strizza l’occhio all’espressionismo tedesco. Il tutto mentre Eggers rievoca sensazioni ancestrali che procedono a erosione della mente e del corpo, radicandosi nelle imperfezioni spirituali dell’uomo e spingendolo a lasciare che gli istinti umani più brutali prendano il sopravvento. I miti pagani dell’uomo (sirene, tentacoli à la H. P. Lovecraft) intervengono poi a puntellare un racconto profondamente umano di pennellate soprannaturali che ne accentuano le derive deliranti, emergendo dall’oscurità e dalle torbide acque dell’Atlantico.
Se si esclude alcune parentesi grottesche che possono strappare un sorriso inquieto, l’atmosfera è sempre tesa e claustrofobica, soprattutto nel finale dove l’orrore trova spazio senza concedersi fronzoli o censure. Erano anni che nell’horror mancavano finali così potenti e inquietanti come quello di The Lighthouse, film che si getta a capofitto a rinnovare in linguaggio di un genere che rielabora il meglio della classicità, tra ombre e giochi di luce degni di Il gabinetto del dottor Caligari. Sicuramente il miglior esperimento propedeutico possibile che Eggers potesse girare in vista del suo remake di Nosferatu di Murnau.