Nella prefazione a Dio la benedica, dottor Kevorkian di Kurt Vonnegut (minimum fax, 2012), Francesco Piccolo dice che per capire se un grande scrittore è uno scrittore che amiamo, bisogna inevitabilmente valutare anche i suoi scritti minori. Aggiungerei anche che nell’avvicinarsi a un autore orbitare intorno alle suo opere di maggior rilievo attraverso titoli della prima fase del suo percorso o semplicemente minori, per l’appunto, può riservare più di una sorpresa. In primo luogo, si ha modo di saggiarne i temi, lo stile, intuire i tratti che saranno poi sviluppati con più maturità; in secondo, in opere-raccolta di racconti, si riesce ad avere una panoramica di tutte o quasi le caratteristiche che contraddistinguono un artista.
È il caso di The infinite Wait di Julia Wertz, in origine pubblicato negli Stati Uniti nel 2012 e portato in Italia alla fine del 2018 da Eris Edizioni.
The Infinite Wait arriva per la giovane fumettista americana (classe 1982) a due anni di distanza dall’opera che ne ha definitivamente suggellato il successo non solo entro i confini nazionali: Drinking at the movies, pubblicato in Italia sempre da Eris Edizioni, in cui la Wertz affronta le (dis)avventure del suo anno vissuto a New York.
Fortemente voluto dall’autrice, che nascondeva nel cassetto l’idea di una delle storie che compone questa raccolta, questa nuova opera è un grande viaggio nella vita e nelle esperienze dell’autrice, dall’infanzia ai risultati lavorativi raggiunti, che si sviluppa in tre storie i cui piani temporali si incrociano più volte. Tre novelle a fumetti: Industry, The infinite wait (che dà il nome all’opera), e A strange a curious place. Le prime due, le più corpose, affrontano una il percorso lavorativo di Julia Wertz, dai primi lavoretti svolti da adolescente anche in compagnia del fratello maggior fino all’ostico sbarco nel mondo dell’editoria; l’altra, probabilmente la più intima, il malessere e la successiva diagnosi della malattia autoimmune di cui soffre: il lupus sistemico. Infine, l’ultima non è altro che una dichiarazione d’amore alla lettura, partendo dalla scoperta in età infantile di una biblioteca pubblica.
Se c’è una cosa che si intuisce subito della Wertz è il tono sferzante e ironico, nonché un tratto assolutamente caratteristico e personale, difficile da confondere con altri. L’autrice si presenta subito senza peli sulla lingua fin dall’introduzione e la curiosità collegata al titolo dell’opera: “l’idea che qualcuno peschi questo libro dallo scaffale, aspettandosi la nuova opera dell’élite letteraria di New York e si trovi invece un libro di battute e parolacce mi diverte profondamente“.
La stessa impronta tagliente ma anche autoironica si ha per tutto lo svolgersi delle storie: la Wertz non fa sconti al mondo, alle persone, ma neanche a sé stessa. Il suo è un raccontarsi poco filtrato e così spontaneo da renderla subito vicina al lettore; una figura quasi amica. Affronta le difficoltà nel lavoro, ma anche i momenti di autosabotaggio (in un modo in cui sappiamo fare un po’ tutti); nonché i suoi lunghi anni da alcolista. La sua attesa infinita è dopo tutto una continua ricerca di un proprio posto nel mondo, variando di volta in volta spazi, attività, persone a cui accompagnarsi.
Un occhio sulla realtà che richiama un po’ il nostro Zerocalcare, per quella tristezza esagerata, ma in fondo anche essenzialmente ottimista, e i personaggi esagerati, caricaturali: quelli che in Zerocalcare prendono forma zoomorfa e qui emergono un po’ come delle macchiette. Si ride e ci si riconosce: i disagi di Julia Wertz sono quelli di una generazione – è impossibile non immedisimarsi in almeno una delle sue battute; eppure siamo ben lontani da un’opera che si ripromette solo di far ridere: The Infinite Wait resta infatti un viaggio molto intimo nella sfera personale dell’autrice, che con coraggio si svela ai lettori. Il racconto centrale rivela tutte le debolezze della malattie, le difficoltà della diagnosi fino al processo di accettazione del dover convivere per sempre con una malattia che non si è in grado di assopire del tutto. Si tocca con mano il ruolo cardine dei legami familiari, speciali nella loro imperfezione, e anche un profondo amore per la lettura prima e per il mondo del fumetto poi. Anche i due racconti più lunghi, pur partendo da tempi e nuclei narrativi diversi, conducono a un’unica meta: il fumetto. Paradossalmente nel primo vediamo gli sviluppi pratici del suo talento, nel secondo la scoperta di esso, anche grazie alla costrizione al riposo data dalla malattia; in una parabola a ritroso che dalle prime soddisfazioni come autrice ci conduce alla prima scintilla, tra gli scaffali carichi di libri da prendere in prestito.