“Pigen med nålen”, arrivato fuori dalla Danimarca col titolo The Girl With The Needle è un pugno nello stomaco. L’espressione è trita, ma sono solo le espressioni violente quelle che possono rendere il contenuto del film di Magnus Von Horn. Un dente estratto senza anestesia, una marchiatura a fuoco, dolore dolore dolore.
Il film segue la storia di una ragazza di nome Karoline (Vic Carmen Sonne) negli anni finali della prima guerra mondiale, raccontandone in particolar modo miseria e miserie. Sin da subito Karoline si trova a sottostare alla violenza della povertà e del padronato, subendo uno sfratto che la getta nella disperazione della strada. Con gli ultimi soldi rimasti Karoline riesce a trovare una stanza dove vivere, che allo stesso tempo è una stanza invivibile, specchio dell’inferno della classe lavoratrice. Karoline infatti questo è: una lavoratrice. Una delle tante tessitrici di una fabbrica di prodotti vestiari, prigioniera delle mura, dei tessuti, degli aghi che si spezzano e le bucano le dita. Le sue giornate trascorrono tra la fabbrica e l’attesa del marito di cui non si hanno più tracce dopo la sua partenza per il fronte. Niente sembra poter risollevare le sorti di Karoline, se non fosse che dopo un incontro di natura burocratica, la ragazza entri nelle grazie di Jørgen (Joachim Fjelstrup), il padrone della fabbrica. Grazie che si trasformano in desiderio e infine in una storia d’amore che sembra poter consegnare alla ragazza una nuova esistenza. Ma il mondo di Von Horn è un mondo privo di sogni e attraverso passaggi di cruda brutalità la vita della ragazza viene nuovamente sconvolta, dissestata. Tutti gli avvenimenti del film girano fortemente intorno alla dimensione femminile, la maggior parte dei personaggi sono personaggi femminili costretti chi più o chi meno a scontrarsi con la loro dimensione corporea incastonata nella storia. Personaggi che cercano di salvarsi e di salvare anche attraverso quello che è più atroce. A porsi in questa maniera è quello che sarà uno dei personaggi chiave del film, una donna di nome Dagmar (Trine Dyrholm) che prenderà Karoline “sotto la sua ala”.
L’opera del regista svedese è al contempo un’opera di guerra, di corpi massacrati, sviliti e derisi, che si trasforma in un film dagli echi del primo Lynch di The Elephant Man quando ad irrompere sullo schermo è un uomo dalla testa esplosa costretto a guadagnarsi da vivere dentro i freak show, luogo dove l’amore e la tenerezza vengono piegati al disgusto ed un bacio trasformato in uno sguardo distolto.
Un uomo che vive della stessa tenerezza dell’uomo elefante, con la famosa esclamazione “I am not an animal, I am an human being” che non può non riecheggiare mentre le immagini scorrono sullo schermo. Immagini di quotidianità amputate, di cibi versati, di incubi demoniaci.
Nell’indagine di classe svolta da Von Horn un ruolo centrale lo svolge l’elemento della prole, nella duplice funzione di presenza-assenza, di tensione tra aborti e affidamenti, tra orizzonti vitali ed eliminazioni, scavando attraverso domande archetipiche senza il timore di trasformare il piccolo ago nel ferro gigantesco.
La quotidianità è dolorosa e povera mentre una metafora dolciaria alberga tra le esistenze dei personaggi, questo dolce assurdo che sembra il necessario per ingoiare i bocconi più vomitevoli, caramelle tra scarichi fognari, caramelle tra lenzuola luride, Delikatessen.
Il tutto si svolge in una Copenaghen opprimente e tetra che grazie alla scelta del B/N emerge come una fotografia in movimento, rimembranza di quelle immagini stampate sui libri di storia nei capitoli sulla seconda rivoluzione industriale e le workhouses, stalle umane, di esseri umani ridotti al lavoro e alla riproduzione, nella più profonda degradazione dello spirito.
La storia di Karoline scorre su binari tragici, fondandosi su illusioni e su fedi mal riposte, una ricerca di una umanità buona nonostante lo scontro con il reale dia alla luce mondi terribili che si susseguono. Ma nonostante la storia si fondi sugli aspetti più oscuri dell’animo umano alla fine il film riesce a rischiarare la propria ombra, con lo spettatore che può abbandonare lo sguardo nella luce dei capelli biondissimi di una bambina.