Mente tra le più effervescenti e al contempo riflessive del panorama cinematografico, Ang Lee è un regista talmente eccletico da rendere vana qualsiasi etichetta. Se con gli esordi orientali (Ragione e sentimento in primis) il regista di Taiwan gettava le basi per una filmografia incentrata su conflitti familiari e classisti, il successivo sbarco a Hollywood ha sovvertito con una volontà molto impulsiva nella sperimentazione, quasi adolescenziale, molte convenzioni della Fabbrica dei Sogni del Cinema. Ad Ang Lee si attribuisce lo sdoganamento del Wǔxiá, ovvero il “cappa e spada dagli occhi a mandorla”, presso i lidi hollywoodiani (La tigre e il dragone); l’aver anticipato Christopher Nolan e Sam Raimi sul fronte del cinecomic dal taglio introspettivo (il sottovalutato Hulk con Eric Bana); la declinazione ultima del western gay rude ma emotivamente struggente (I segreti di Brokeback Mountain); e, in ultimum, la creazione di mondi e storie visionarie rese possibili grazie all’impiego della tecnologia 3D portata alle sue estreme conseguenze (Vita di Pi).
Gemini Man, in sala dal 10 ottobre 2019, condivide con Vita di Pi la volontà di sperimentare con la tecnologia, ma a differenza della pellicola tratta dal romanzo di Yann Martel, l’ultima opera del cineasta due volte Premio Oscar con protagonista Will Smith predilige soprattutto la forma al contenuto, regalando al pubblico un action di intrattenimento puro e spensierato che sul versante visivo offre uno spettacolo che è vera festa per gli occhi. La trama di Gemini Man si avvicina molto ai plot di molte pellicole di film d’azione contaminati con la fantascienza che invadevano i cinema tra gli anni Novanta e i primi Duemila: l’affidabile sicario Henry Brogan (Smith) ha raggiunto la cinquantina, e per lui è giunto il momento di ritirarsi dall’attività mercenaria. La scelta dell’uomo non è accolta di buon grado dalla DIA (Defence Intelligence Agency), società per la quale egli aveva prestato le sue doti, che subito mette sulle sue tracce un altro feroce serial killer che possiede le stesse sembianze di Brogan, solo più giovane.
La sceneggiatura (scritta, tra gli altri, dal David Benioff di Game of Thrones) non offre nulla di particolarmente innovativo, preferendo adagiarsi sui canoni del genere, senza sorprese o grandi colpi di scena, mentre il tema del doppio, esplicitato fin dal titolo, viene trattato più come semplice pretesto per il frenetico spettacolo d’azione. Questo disimpegno nella costruzione della struttura narrativa si riflette, inevitabilmente, pure sui nomi coinvolti nel cast artistico, da Smith a Clive Owen, i quali non offrono interpretazioni che vadano oltre il compitino svolto con professionalità. Il tutto è imbastito solo per far sì che siano la regia di Lee e il mestiere dei vari tecnici a valorizzare l’imprinting dell’insieme filmico, e sotto questo aspetto non c’è proprio da lamentarsi. L’High Frame Rate di 120 fotogrammi al secondo (sei volte maggiore rispetto alla tradizionale velocità di proiezione, di 24 fps), l’iperrealismo delle coreografie di combattimento e l’impiego della tecnica del de-aging che ringiovanisce gli attori presenti sullo schermo, ben contribuiscono alla riuscita sensoriale, da giro concitato sull’ottovolante.
Considerati i precedenti del regista, Gemini Man è un deciso passo indietro per la filmografia di Lee, qui più attento alla resa estetica inattaccabile che all’assemblaggio di un lungometraggio che vada oltre una certa mediocrità di fondo. Ma con la giusta dose di spallucce (e soprattutto di sospensione dell’incredulità), Gemini Man offre comunque un paio d’ore di onesto spettacolo pop-corn scevro da ambizioni, ben confezionato, del quale tutto sommato non si rimpiange il prezzo del biglietto.