The Fratellis – In Your Own Sweet Time

È assurdo, provare per credere, come in qualsiasi cosa mai scritta riguardo questo gruppo nella prima riga vengano fuori inevitabilmente due parole: Chelsea Dagger. Eh sì, sono proprio loro “quelli di Chelsea Dagger”; una canzone che ha fatto la loro fortuna, diventando un tormentone mondiale nel 2006, con quel motivetto che tutti conosciamo e che quando parte è in grado di ravvivare qualsiasi festa mal riuscita. L’abbiamo sentita in mille pubblicità, in migliaia di film stranieri e italiani, qualcuno anche allo stadio (quando la Juventus segna un goal viene sparata dagli altoparlanti) e ogni tanto ritorna, con l’uscita di un’auto nuova o di una nuova varietà di birra commerciale. Come ritornano Henrietta e Flathead, gli altri due celeberrimi brani presenti in quel loro maledetto ma impeccabile album d’esordio (Costello Music, che tra l’altro ha venduto un milione di copie solo in Gran Bretagna) e che fanno da più di un decennio la fortuna dei pubblicitari di tutto il mondo.

Ma in pochi sanno che dopo quel fortunatissimo esordio, i tre scozzesi Jon, Barry e Mince Fratelli (pseudonimi di John Lawler, Barry Wallace e Gordon McRory) hanno fatto uscire altri tre album tutti definiti più o meno disastrosi, anche a causa delle altissime aspettative che avevano creato. Penso si possa parlare, arrivati a questo punto, di maledizione, la maledizione di Chelsea Dagger che come uno spettro incombe sulle loro teste ogni volta che si chiudono per registrare qualcosa. Questi scozzesi però sono cocciuti e non mollano, per cui dopo aver fatto uscire Here We Stand (2008), We Need Medicine (2013) e Eyes Wide, Tongue Tide (2015), hanno completato il loro ultimo lavoro: In Your Own Sweet Time.  La particolarità di quest’ultimo album è che è stato prodotto da Tony Hoffer, lo stesso che ha prodotto il loro debutto (produttore anche di Beck, The Kooks, M83, Belle & Sebastian).

Ascoltando il brano d’apertura Stand up Tragedy, di cui sicuramente apprezzo il titolo simpatico, penso che potrebbe essere una canzone di chiunque altro tranne che dei The Fratellis. Un country pop stile nuova scuola di Nashville, per nulla Glasgow: sarà che il genere non è nelle mie corde, ma questo pezzo non aggiunge nulla di nuovo alla storia dei tre musicisti e nel suo essere anche troppo orecchiabile è qualcosa di vagamente già sentito. Decisamente meglio – almeno dal punto musicale, il secondo brano Starcrossed Loserz, uscito anche questo come singolo e che parte con una bella batteria e un riff di basso in stile Do me a Favour degli Arctic Monkeys, che crolla però per quanto riguarda il testo, rivelandosi una canzoncina d’amore tra tante (Romeo, Romeo, I’m your Juliet, cantano).

L’amore un po’ naif, un po’ inusuale, quelle situazioni che rendono il nostro amore diverso dagli altri, ma poi neanche tanto: è questo il tema ricorrente del nuovo album e se ci penso su, forse di tutti gli album dei The Fratellis, almeno c’è da riconoscere a questi scozzesi che ce la raccontano in maniera scanzonata e autoironica, non rendendola mai pesante. Un ottimo esempio è Sugartown, brano dalla verve anni ’50, che apparentemente parla di caramelle dolcissime ma che ha una forte connotazione sessuale, senza risultare volgare e mantenendo una leggerezza che fa sorridere.

Un’altro aspetto preponderante nell’album è questa ripresa del country, che personalmente disprezzo ancor di più se miscelato o rivisitato, ma che a loro sembra piacere tantissimo visto che ricorre (son gusti eh…) anche in Next Time We Wed, che insieme a Stand up Tragedy è un brano di punta visto che sono usciti entrambi come singoli, scritto in rima e col ritmo di una quadriglia, ma con chitarre e alcuni inserti elettronici (per intenderci alla Arcade Fire in Everything Now) e che evidentemente sembrano andare molto di moda quest’anno.

Dopo la traccia numero cinque succede una cosa parecchio strana, delirio, parte una sorta di mega mix, in cui ogni brano è qualcosa di a sé stante e non c’entra nulla con il resto. Abbiamo I‘ve Been Blind che nella sua semplicità non è per niente male, è una mezza canzone dei Police ma è buona e il testo ben scritto; c’è Laughing Gas che invece ha un respiro più folk e un simpatico motivetto a mo’ di Mumford and Sons, tutto sommato non è male; e come ultimo esempio I Guess… I Suppose… dove citando se stessi ricordano con amarezza i tempi d’oro, riprendendo quel blues vicino al garage e quell’energia che lì rese celebri nel 2006. Penso sia abbastanza per comprendere quanto è apparentemente casuale la seconda metà di questo disco.

A chiudere il tutto c’è I am That: finale in grande stile, molto “rock opera” che fa calare il sipario su un album non eccellente, ma sicuramente migliore rispetto agli ultimi lavori. – “Sono tornati ai livelli di Costello Music?” – direi proprio di no, però mostrano prima di tutto consapevolezza della propria capacità e maturità artistica, dimostrata da tutto questo sperimentare, che a tratti gli riesce anche bene ottenendo un risultato sicuramente catchy ma non troppo brillante dal punto di vista musicale. È triste da ammettere ma anche stavolta la maledizione di Chelsea Dagger si è compiuta, ma tutto sommato non li definirei “meteore”.

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