I primi segni, è il caso di dirlo, c’erano stati nel 2009 con Embryonic, quindi The Terror, quattro anni dopo, confermava i sospetti. Con l’uscita del loro diciassettesimo disco, Oczy Mlody, si ha ormai la certezza che i Flaming Lips siano entrati, di fatto, in quello che può essere visto come il terzo periodo della loro lunga e complessa storia musicale. Nato all’inizio degli anni ottanta, il gruppo dell’Oklahoma registrava fin da subito una serie di dischi capaci di unire garage rock e musica psichedelica con uno stile immediatamente personale e in grado di mescolare le carte e giocare (letteralmente) con il potere del nonsense e del surrealismo. Dopo il passaggio alla Warner, pian piano i Lips realizzavano album d’incredibile bellezza spostando l’asse della loro produzione verso una sorte di psych/progressive pop, riuscendo nell’impresa di portare il pop ai vecchi fasti degli anni sessanta, non riducendolo cioè a mero prodotto mainstream ma anzi, all’interno di quella cornice, dimostrando di essere capaci di farne esplodere i confini, mettendo a punto una macchina allegra, scanzonata e ironica, nelle intenzioni e nei fatti, capace di creare una sorta di culto in grado di tenere insieme idee musicali fresche e originali dentro una struttura musicale che non ha mai poggiato, a dire il vero, su basi solidissime (i Lips hanno riportato in auge quell’approccio tipicamente zappiano senza averne, appunto, le medesime capacità tecniche ma sopperendo a tali mancanze con massicce dosi di creatività e inventiva).
Il lavoro dei Lips non è mai stato un lavoro prettamente musicale, anzi. Tralasciando il ruolo che si sono ritagliati come intrattenitori (per moltissimo tempo i loro concerti sono stati grandi feste con tanto di coriandoli, palle gonfiabili e tutto l’armamentario del genere) è proprio l’approccio al lavoro di studio che ha permesso alla band di essere l’unica, con più di trenta anni di storia alle spalle, capace di mantenersi veramente attuale senza cedere di un millimetro al fantasma del dinosauro del rock che ha infestato il percorso di tantissimi artisti. A lavoro in maniera continua su più progetti, i Lips hanno progressivamente abbandonato l’idea stringente di forma canzone (e di album di canzoni) per lanciarsi in dischi che, da tempo ormai, se non vere e proprie suite, sicuramente non rinunciano alla cifra dell’incompiutezza. Abbozzi, canzoni che si perdono nella loro progressione, atmosfere che, invece di chiudersi per trovare una forma, hanno cominciato a dilatarsi per cercare orizzonti.
Un mescolio di suggestioni, disegni, pensieri, intuizioni extra musicali sono gli ingredienti alla base dell’approccio a un nuovo disco che risulta così il tentativo di rendere musicale un mondo di fantasia e di emotività altrimenti non esprimibile.
The Terror, l’ultimo vero album di studio della band risale ormai a quasi quattro anni fa e, come dicevamo, iniziava a mostrare i segni di una sorta d’incupimento nel mondo sonoro solitamente allegro e scanzonato di Wayne Coney & Co. In questi quattro anni certo non erano stati con le mani in mano: With a Little Help from My Fwends (rivisitazione non del tutto riuscita, a dire il vero, del capolavoro dei Beatles, diversamente dalla barrettizzazione di The Dark Side of the Moon di qualche anno prima) e Miley Cyrus & Her Dead Petz, il disco uscito lo scorso anno in cui la band ha lavorato, sia in fase di creazione sia di registrazione, con l’ex reginetta del Disney Club, se da un lato avevano fatto storcere il naso anche ai fedelissimi, dall’altro potevano lasciare immaginare che i Flaming Lips flirtassero ancora con il caleidoscopico mondo psichedelico.
Bastano le prime note, invece, di Oczi Mlody per deludere chi si aspettava un passo indietro dopo le critiche a The Terror. Il tappeto sonoro che, con note liquide, apre su una fanfara elettronica e poi su una tessitura di beat degna di Nicolas Jaar, il pezzo che dà il titolo al disco, è una presa di distanza fortissima che, rispetto a The Terror, spazza via le tracce residue che li collegavano al passato.
Tastiere, sintetizzatori e il canto di un fringuello sono, invece, l’incipit di How. Aperture sonore, suoni che oscillano tra industrial e videogiochi eighties accompagnano la voce di Wayne Coyne, ricca di effetti in un pezzo che sembra farsi e disfarsi alla ricerca di una quadra che in realtà non ricerca e a cui non ambisce. Il testo fa esplicito riferimento alla legalizzazione delle droghe, ai rednecks americani ma anche alla violenza della gioventù richiamando così il titolo del progetto che nasce da una storpiatura della lingua polacca. Oczami mlodych significa, infatti, occhi giovani e anche se è stato scelto per il suono delle parole che a Coyne ricordavano una droga futuristica, è evidente come il disco voglia tracciare, tra un cantato malinconico e canzoni in modo minore, un paesaggio sonoro di delicata leggerezza, tenue malinconia e nostalgia.
There Should Be Unicorns è il primo segno che questo paesaggio se da un lato per suoni, elementi e tessitura sembra richiamare una specie di galassia spaziale di là da venire, allo stesso tempo, dall’altro, mostra la possibilità della convivenza con un altro mondo: quello fantastico di unicorni, streghe e maghi che ritroveremo nel disco. Musicalmente anche Unicors non si discosta da quella che è la cifra di tutta la prima parte del disco: elettronica, tastiere e synth che costruiscono lo scenario sonoro su cui innestare jingle, note spezzate e il cantato etereo di Coyne; sul finale però un parlato con voce profonda che ricorda l’incidere dell’ultimo Cohen porta il pezzo sul territorio inedito di una spoken song che dagli unicorni sembra richiamare l’attualità (la polizia americana nello specifico) e si spegne con un fare alla Thriller di Michael Jackson senza alcuna risata finale.
Sunrise (Eyes of the Young) parte con una melodia futuristica di grande tenerezza per poi spezzarsi in una specie di liturgia galattica che, dopo un’esplosione sommessa, gioca su un bel ritmo di batteria mentre Coyne sembra raccontare con estrema nostalgia del tempo che non torna. Il coro finale, accompagnato a brevi accordi pizzicati, conduce lontano suoni e atmosfere verso l’elettronica vintage di Nigdy Nie (Never No) su cui s’innesta un beat quasi hip hop procedendo, anch’essa, attraverso un continuo percorso di distruzione e ricomposizione.
Galaxy I Sink è la nenia distante con cui ci culla Cohen fino a che, all’improvviso, un inedito paesaggio spaghetti western, con tanto di chitarra alla Morricone, apre uno squarcio bellissimo e inatteso e, sull’arpeggiare della chitarra e l’ingresso delle note di un organo, scioglie la tensione in una partitura orchestrale che allarga l’orizzonte e finalmente scalda dopo tanta freddezza stellare. Ma è un attimo solo, perché è ancora un ritmo marziale, come di un tamburino spaziale che procede nel vuoto, a riportare il pezzo al suo inizio in una specie di cerchio e di viaggio in cui dal finestrino nel nero siderale vediamo qualche stella a illuminare il cammino.
One Night While Hunting for Faeries and Witches and Wizards to Kill apre invece, di fatto, la seconda parte del disco. È sicuramente un caso, ma dal titolo all’atmosfera sonora sembra un pezzo che ha molto da dividere con la Burn the Witch dei Radiohead (verso cui i Lips hanno, comunque, dichiarato ammirazione). Tamburi liquidi sorreggono la trama elettronica e, mentre avanza il phatos del racconto, suoni da Space Invaders quasi didascalicamente accompagnano le disavventure dell’eroe fino a un motivetto finale fischiato mentre il pezzo si scuce sotto il suono di campane che continuano a battere nella successiva Do Glowy, una sorta di suite electro/progressive sorretta da un giro di basso che si alterna a percussioni secche fino a un groove di synth e basso che fa entrare finalmente ritmo nel disco.
Un breve gra gra di ranelle con tastiere e basso introduce Listening to the Frogs With Demon Eyes. Tra i tronchi di albero dove si nasconde il ferito di One Night… vengono fuori riflessioni (Have you ever seen someone die / In the summertime…??) che danno forza al tono malinconico che attraversa Oczy Mlody. Ancora una volta, anche qui, il pezzo si trasforma all’improvviso come in preda a una mutazione genetica o semplicemente come in un flusso di coscienza applicato alla musica che va nella direzione di massima libertà senza preoccuparsi della reazione del pubblico o della critica, provando così a raccontare o a mettere in scena la propria visione, musicale e non solo, che è l’approccio alla base dell’intero disco.
The Castle, decima traccia è anche il singolo dell’album e non a caso si dimostra il pezzo più orecchiabile. Immerso in atmosfere rumoristiche e futuristiche insieme, è un pezzo intriso di malinconia, nostalgia e dolcezza e procede come una ninna nanna del ventunesimo secolo.
Almost Home sembra la fine del viaggio ma resta qualcosa di ambiguo, di minaccioso che lascia dubbi e perplessità sulla fine dell’avventura, sull’essersi davvero messi in salvo e sul senso reale delle apparenze. Offre una chiave di lettura di un disco complesso e spiazzante che al primo ascolto infonde una certa bellezza che sembra però quasi perdersi al secondo dove vengono fuori incertezze, contrasti, piccoli deragliamenti e che solo nel tempo si concede in tutta la sua bellezza e possibile comprensione. La stessa ambiguità del ritorno a casa raccontata nel pezzo, la stessa salvezza dopo il pericolo (che non è mai davvero salvezza) attraversa l’intero disco che, tanto nel racconto quanto nell’atmosfera, che è capace di creare, non è mai lineare, mai rassicurante e proprio per questo è, di là dallo stile, un vero disco dei Flaming Lips, un disco che dietro la facciata nasconde una struttura solo apparentemente casuale e caotica.
La conclusione è invece affidata a We a Family (in cui collabora ancora Miley Cyrus) che si fa, nel testo come nei suoni, più conciliante con il passato come a voler illuminare di ottimismo questo viaggio dentro la fantasia di Coyne e compagni. Ritorna, seppur distorta e mascherata, la psichedelia amata e il canto si fa più aperto, più vicino come una progressiva luce che porta un calore che si espande nonostante tutto sull’incidere dello scanzonato coro che accompagna il pezzo e il disco verso la chiusura.