Fotografie di Alessia Naccarato
Stando a quanto ci hanno insegnato, a parte Peter Pan, tutti, a un certo punto, dobbiamo farcene una ragione e capire che è arrivato il momento di crescere.
Per fregarci meglio, senza che ci facesse troppo male, hanno provato pure a convincerci adducendo motivazioni poco plausibili. Per esempio che crescere è fico, perché puoi complicarti la vita con le “cose da grandi”, come andar via di casa, prendere la patente o iniziare a comprare i dischi in vinile senza avere la minima idea di come farli entrare in un lettore CD. Quello che si sono (premeditatamente) dimenticati di sottolineare è come la cosa comporti tutta una serie di inconvenienti che, persi nella sbornia di euforia iniziale, non sempre si finiscono a considerare. Tipo i reumatismi, i nodi delle cravatte che alla fine vengono sempre al pettine, un lavoro alienante che non è detto ti permetta di intascare mezza pagnotta rafferma e molto tempo in meno per le Instagram Story. Almeno teoricamente.
Non che se avessero (quelli che si spacciano per consulenti certificati nell’arte di diventare adulti, dico) messo tutte le carte sul tavolo fin dall’inizio le cose non sarebbero andate in vacca lo stesso. Però se non altro ci saremmo risparmiati il fenomeno degli influencer. Ma questa è un’altra storia. Non divaghiamo.
La storia di oggi è una storia di menzogne fatte e finite, come quando ci hanno assicurato che c’è chi cresce piano e chi cresce troppo in fretta, chi cresce bene e chi cresce peggio, chi cresce in larghezza e chi cresce in altezza, ma che, comunque vada, una sola cosa è sicura: raramente il processo avviene in maniera indolore, senza rimorsi o, come minimo, un po’ di nostalgia, nella sua ineluttabilità.
Lo credevo anche io. Fino a quando la faccia sorridente di Wayne Coyne non è rotolata — genuinamente divertita — a pochi centimetri dalla mia, dietro la sottile superficie della palla di gomma trasparente dentro la quale stava galleggiando sopra le nostre teste.
E pensare che nemmeno un’ora prima l’onore (e l’onere) di tenerci un’impeccabile lezione su come il sport dell’intrattenimento agonistico può salvarti la pelle era stato uno che aveva fatto il giro completamente opposto e una certa personale idea di gioco (dell’oca) l’aveva imboccata contromano. Uno che cresciuto c’è nato, visto che la vita ha esordito prendendolo a schiaffi fino allo sfinimento e adulto è stato costretto a diventarlo nel tempo di un’adolescenza, per cause di forza maggiore e per conto terzi. Sopravvissuto — non si sa bene come — alla propria autobiografia, Mark Oliver Everett ne è uscito malconcio ma in piedi, con un paio di occhiali scuri d’ordinanza per non restare più abbagliato dalla sfiga e un’irresistibile (auto)ironia che metaforicamente gli ha disegnato una riga lungo il viso, rendendolo così una volta per tutte il Benjamin Button del sorriso, lui che il divertimento ha dovuto impararlo al contrario, come forma di difesa invece che strategia di attacco disarmante.
Stride come il cucchiaio sul fondo della pentola semivuota, messa così. Ma il fatto è che per capire che Eels e Flaming Lips sono le due facce della stessa moneta (nello specifico, l’obolo necessario a portare il concetto di show alle sue estreme conseguenze fino a farne, magicamente, una sorta di cura) l’unica opzione è riuscire a farli incontrare nel loro naturale punto di tangenza: quel bordo zigrinato su cui possono stare in equilibrio precario contro ogni gravità e statistica, capaci di non lasciare cadere giù né teste né croci, ma solo coriandoli colorati, sketch grotteschi e belle risate.
E allora è andata che questa volta l’idea di mettere in pratica il proverbiale azzardo “Dio li fa e qualche rassegna musicale li accoppia” è venuto a Settembre // Prato è spettacolo, evento di fine estate della città toscana che da cinque edizioni ormai riesce a bilanciare il copywriting non proprio appealing del nome con un programma di assoluto livello. Gli anni scorsi — tra gli altri — Air, Interpol, Blonde Redhead, dEUS, Einstürzende Neubauten. Ieri Mike Patton. Domani una storica band italiana di Torino. Gente importante, che da queste parti non si vede di frequente. Anche se la cosa non sembra colpire più di tanto i due ragazzoni che strappano i biglietti all’ingresso.
— Chi sono quelli che suonano stasera?
— Mah, un gruppo anni ‘80 dell’Oklahoma.
— Ah. Ma te sei qui anche domani?
— Chi c’è domani?
— I Supersonica.
Piazza del Duomo dà l’impressione di faticare a riempirsi, o comunque lo fa con la tipica pigrizia della provincia abituata a rimandare ogni mossa a un comodo quanto rischioso last minute, soprattutto se mal consigliata da previsioni meteo (melo)drammaticamente fuori fase che avevano annunciato violenti temporali di cui non si registrerà traccia. In ogni caso, qua e là, si può già apprezzare qualche indizio della trasformazione sentimentale in atto, che porterà il nucleo originario di un ex-borgo altomedievale (diventato poi impero decaduto del tessile e che oggi prova, con alterne fortune ma encomiabile impegno, a scrollarsi di dosso l’etichetta di “periferia di Pechino”) dritto verso un breve ma intenso futuro degli affetti in cui tutti non potranno fare a meno di volersi un bene dell’anima e il mondo sarà, anche solo temporaneamente, un posto migliore.
Qualche cannone già pronto a sparare in aria pezzi di felicità surrogata in technicolor — perché fare l’amore con gli strumenti della guerra è sempre meglio che farci la guerra con la scusa dell’amore. Due funghi giganti, potenzialmente allucinogeni ma ancora sgonfi, ai lati del palco — perché in amore, come nella psichedelia, quel che conta è la chimica. Un unicorno parcheggiato in doppia fila nel backstage — perché nemmeno la fantasia più sgargiante è indenne dalle logiche dell’abbandono, quando la festa finisce e quello che pensavi fosse amore era un calesse con le ali di un Mio Mini Pony.
Ma non spoileriamo. Adesso, della festa, c’è ancora quell’atmosfera un po’ decadente che si annusa prima, quando l’euforia per il momento deve iniziare a salire, il catering sta finendo di farcire i tramezzini e gruppetti sparuti di invitati iniziano a curiosare tra i tavoli ancora non del tutto apparecchiati.
Mi piacerebbe dire che molti di quelli che compongono i gruppetti sparuti di fan che iniziano a curiosare verso il palco non ancora del tutto apparecchiato, sporgendosi oltre le transenne, quando uscì Hear It Is non erano ancora nati, ma le facce che vedo in giro mi dicono che gran parte di loro, nel 1986, avevano già imparato almeno la tabellina del 7 e le divisioni con la virgola. Io, per dire, già sapevo fare gli integrali. Ma solo perché ero un bambino prodigio. No, non sono così vecchio.
O almeno è quello di cui voglio convincermi stasera. E mica ho scelto una sera a caso.
Gli Eels spengono subito i miei propositi bellicosi in questo senso, entrando, armati di trombette da stadio, sulle note della colonna sonora di Rocky, e ricordandomi così quanto tempo è passato da quella che chiamano infanzia. Lo show è praticamente lo stesso dell’anno scorso a Cesena e, per quanto possa apparire arida quest’ultima affermazione, è tutto meno che un male, perché se la vita è fatta di poche sicurezze, la qualità della band californiana è una di queste.
Scaletta pressoché identica, stessi intermezzi, stessi siparietti, stesse battute a cui continui a ridere imperterrito, come immobilizzato nell’eternità sospesa di uno stand-up comedian che conosce il suo repertorio meglio di se stesso e sa riproportelo ogni volta come fosse la prima. Repertorio più che ventennale, che dello show classico ha tutti i crismi e i momenti: intro, outro, jingle composti ad hoc, dialoghi iperbolicamente surreali preparati assieme alla spalla di turno e pezzi scritti con una maestria innata e poi messi uno dietro l’altro come se nulla fosse, che iniziano a popolare di animali bizzarri (mostri delicati e vampiri innamorati, scherzi della natura e ragazzi con la faccia di cane) quella specie di incrocio tra un circo, uno zoo e un ballo in maschera che poco dopo seguirà. Sempre pronti a prendersi la responsabilità di qualche cuore spezzato, ma consci che, se di show si deve trattare, allora è bene che continui a qualunque costo.
«I’m going to stop pretending that I didn’t break your heart. For sure, thanks to your love, you did with mine, even if I don’t think this will be the night I die. But in case it is, keep your cameras rolling.»
I Flaming Lips invece sono sempre stati, fino a oggi, la mia balena bianca. Ascoltati molto, inseguiti spesso, mai visti dal vivo. In questi casi, dopo quasi trent’anni di carriera a braccetto, un certo numero di recensioni, racconti diventati epici nel passaparola e tutti i video che ci sono su YouTube, uno sa più o meno cosa aspettarsi, anche se la domanda che si insinua nell’attesa è tremendamente subdola: sarà forse troppo tardi?
La questione è ancora più pericolosa perché attacca il tarlo da entrambi i fronti. Da una parte loro, i Lips post millennium-bug e i loro trucchetti da prestigiatore che sono sembrati andare più verso sospetti versanti pericolosamente vicini ai sempre rischiosi concetti di “fuori di testa” e “sopra le righe” che dichiararsi figli dell’ispirata follia dei periodi precedenti (fare un disco con Miley Cyrus e soprattutto pensare di stamparne i vinili riempiendoli della sua urina glitterata sa più di boutade disperata che di ideona stravagante). Dall’altra io, ancora convinto di quella storia di cui sopra, ovvero di essere un adulto cresciuto, con problemi ed esigenze da adulto cresciuto che probabilmente è ormai cresciuto abbastanza (ovvero troppo) da superare quella soglia che delimita l’abilità di sapersi godere un concerto come questo.
Perché se su disco i Flaming Lips riescono a bilanciare il loro lato capriccioso con quello esistenziale e la spavalderia entusiasta delle note si mischia ai testi di Coyne (pieni di dubbi riguardo alla vita sopra questo sasso bluastro perso nello spazio) rendendoli un ascolto affascinante, dal vivo la paura è che tutto diventi un gran party all’insegna dello sballo sfrenato, in cui temere una crisi di rigetto da stranezze: un potpourri di Halloween, Capodanno e tutti i casinò di Las Vegas messi insieme per un personale inferno privato.
E invece bastano due cose a dissolvere ogni dubbio. L’attacco di Race for the Prize e la faccia di Wayne Coyne. Si manifestano dopo la classica intro mutuata da 2001: Odissea nello Spazio, ovvero entrambe nei primi dieci secondi. Perché i dubbi o li ammazzi subito oppure finisci per portarteli dietro per tutto il viaggio.
L’attacco di Race for the Prize è qualcuno che conta “uno-due-tre”. Il “quattro” sono due acciaccati colpi di batteria e poi c’è quella cosa strepitosa fatta con non si sa quante tastiere. L’attacco di Race for the Prize compie vent’anni quest’anno e vent’anni fa, in quei soli, primi dieci secondi di The Soft Bulletin spiegava (come se lo stesse facendo a un bambino dell’asilo) che da lì in poi ci sarebbe stata una musica completamente diversa dal resto che potevi trovare in giro in quegli anni e nei vent’anni a venire. L’attacco di Race for the Prize è stato per vent’anni l’attacco di ogni concerto dei Flaming Lips perché ormai aveva settato uno standard di melodia che nemmeno i Lips stessi riusciranno più a gestire. Oggi, l’attacco di Race for the Prize ci conferma che è tutto vero, che è tutto studiato ma niente è posticcio, che c’è vita dentro i robot rosa, che se quando smette di piovere poi manca l’arcobaleno puoi sempre gonfiarne uno con tutto il fiato che hai dentro e ripararti lì sotto a cantare la canzoncina del Mago di Oz, perché anche se le nuvole hanno un sapore metallico, nascondono al loro interno un nucleo caldo di coriandoli e paillettes. Basta saper aspettare l’ennesima perturbazione del mese.
Ma che è tutto vero, soprattutto, ce lo dice — armata del sorriso più bello che abbiate mai visto su questo pianeta e testimonial perfetto di una tale esplosione di gioia incontaminata — la faccia di Wayne Coyne appunto, appoggiata come per sbaglio sopra il corpo di uno dei più distinti signori che possiate trovare su un palco di un concerto rock, ieri, oggi e domani. Completo bianco a metà tra il tuo gelataio di fiducia e la versione angelica di Capitan Harlock, una corona di capelli mossi e brizzolati sulla testa, la barbetta sapientemente incolta, è l’immagine sputata di un Beppe Grillo che ce l’ha fatta, messianico Willy Wonka dello space-pop che una volta voleva essere un ipnotizzatore mentre ora vorrebbe solo abbracciarci tutti e — a giudicare dall’imbracatura di sicurezza che già campeggia sopra la sua giacca — a breve ci riuscirà.
Lo guardi negli occhi e capisci che non ci fa, ci è. Ci crede davvero. Lui, mentre imbraccia una scritta gommosa a caratteri cubitali che recita «Fuck Yeah Prato», ricambia lo sguardo con l’espressione di chi ti ha a cuore sul serio e la cosa è contagiosa. Anche perché il resto della band, attorno a lui, sembra uscita da un magazzino della Giochi Preziosi occupato dallo sceneggiatore di Futurama. Hare Krishna con gli occhiali a led di Star Trek al basso, due batteristi con simmetriche parrucche verdi fluo, gente col mantello, un paio di roadie opportunamente precettati con l’unico ruolo di rispedire verso il pubblico tutta la mandria di palloni gonfiabili che ha invaso il cielo e l’impressione costante che abbiano un piano da portare a termine. Qualunque esso sia.
La mise più sobria la sfoggia il chitarrista, che a differenza dei compagni indossa una semplice t-shirt rosa su cui campeggia minaccioso l’ammonimento «Be polite, you fuckers». Sembra un lettering come un altro, finché non realizzi come, in sole quattro parole, riassuma lo spirito e la filosofia di una band che della gentilezza paracula quanto basta ne ha fatto benzina pressoché infinita per cavalcare — tra melodie incantevolmente melense e approcci pioneristicamente inusuali — l’immagine da fricchettoni che certa critica gli aveva stampato addosso, senza mai risparmiarsi la fatica di nasconderci sotto quanta più buona musica possibile.
Perché sì, a tratti è difficile accorgersene data la quantità non numerabile di elementi di distrazione, ma in un concerto dei Flaming Lips, oltre la caciara carnascialesca ci sono le canzoni. E non sono poca cosa. Ignorato totalmente l’ultimo King’s Mouth, ogni pezzo è specificatamente pensato per la gag associata (o viceversa?), in uno strano equilibrio tra l’estemporaneità di un fumetto di fantascienza e il totale controllo di musicisti navigati (nel senso di navicella spaziale), in mezzo al quale anche un’ode straziante come True Love Will Find You in the End di Daniel Johnston perde ogni connotato di tristezza per diventare un incoraggiamento dedicato a tutti coloro che, sfortunati in amore, anche con il gioco non è che gli vada tanto meglio.
Finché non arriva il momento di tornare con i piedi per terra.
Do You Realize? si spegne in un tripudio estasiato ma già vagamente amarognolo che suona come l’ultimo giorno di carnevale — di un carnevale qualsiasi — a fine serata. E allora resti lì impalato a guardare il deflusso, sotto le note pre-registrate di What a Wonderful World, con le mani in tasca tra quel che ne rimane, sopra il tappeto umidiccio di coriandoli sfatti impregnati di birra, le stelle filanti accasciate per terra nemmeno fossero stelle cadenti (o meglio, cadute — o meglio ancora, ormai, scadute), tra gente che si contende pezzi di palloncini per farsi l’ultimo selfie, con la ferocia di piccioni alle prese con un pezzo di pane, e tutte quelle facce un po’ scosse in cui beati sorrisi ebeti stanno già lasciando di nuovo spazio allo spettro della quotidianità. Perché anche i bambini lo sanno che c’è solo un giorno più brutto del lunedì. Ed è la domenica notte.
Ma entrambi — sia il lunedì che la domenica notte — per quanto prossimi, sono già futuro. E guardare al futuro è vigliacco e controproducente come voltarsi indietro. Dopotutto, qualcuno ci ha appena ricordato che All We Have Is Now e, per dare il buon esempio, ci ha regalato un “now” che è andato avanti per un’ora e mezza.
Se tutti gli istanti durassero così a lungo, indubbiamente sarebbe più facile goderselo con un po’ più di calma. Tutto ciò che abbiamo, dico. O anche solo rendersene conto. Che abbiamo tutto ciò, intendo.
Eels e Flaming Lips compresi.