C’è questa storiella che si racconta ormai da quasi cento anni in pausa pranzo alla mensa delle facoltà di fisica di mezzo mondo. Il suo successo non stupisce più di tanto, visto che contiene tutti gli elementi buoni per diventare virale: come quelle di Esopo ha un animale per protagonista (è dimostrato che l’ossessione per i gattini risale a molto prima di Instagram), ma — a differenza della tradizione classica — preferisce al banale lieto fine, un moderno finale aperto che lasci (perché no?) il giusto spiraglio per un’eventuale seconda stagione, una volta analizzati i dati di ascolto.
Si chiama (titolo provvisorio, ma fino a oggi mai ufficialmente contestato) Il Paradosso del Gatto di Schrödinger e prende il nome, appunto, dal primo che la raccontò, nel 1935 alla mensa della facoltà di fisica dell’Università di Humboldt a Berlino: Erwin Rudolf Josef Alexander Schrödinger. Per gli amici, semplicemente Schrödinger.
Schrödinger non aveva un gatto, il che gli permise — senza troppi rimorsi — di formulare l’ormai famosissimo esperimento mentale durante il quale ne chiudeva uno per un’ora dentro una scatola di piombo, contenente una manciata di Uranio 238 (materiale estremamente radioattivo, per la cronaca), un contatore geiger, un martello e una fiala di cianuro. Per qualche sadica ragione, nella sua testa, costruiva anche un congegno a cascata per rompere la fiala, nel caso in cui l’uranio avesse emesso una radiazione (probabilità? Guarda caso, un salomonico 50%), rilevata dal contatore, che a sua volta avrebbe azionato il martelletto, che a sua volta avrebbe mandato in frantumi il contenitore del veleno, che a sua volta avrebbe reso l’aria nella scatola, diciamo, un po’ pesante e inesorabilmente, a sua volta, ucciso il gatto.
Prima di capire cosa c’entri tutto ciò con il nuovo disco dei Decemberists, concorderete con me che non importa avere una laurea magistrale in fisica teorica o delle particelle per arrivare alla cosiddetta morale della favola. Sì, perché, per quanto il buon Schrödinger avesse imbastito questo teatrino ipotetico nell’ottica di dimostrare i limiti della meccanica quantistica, anche senza andare a scomodare paragoni filosofici tra mondo macroscopico e mondo microscopico — dove si esce dal dominio del determinismo per entrare in quello dell’incertezza e delle possibilità tutt’altro che accertate — e scendere in dettagli che ci renderebbero ulteriormente invisi alla comunità degli animalisti, è abbastanza facile intuire la provocazione lanciata dallo scienziato austriaco: non potendo sapere se l’atomo di uranio è effettivamente decaduto (la scatola è di piombo e il piombo ha la non trascurabile qualità di assorbire qualunque radiazione rendendola così non percepibile dall’esterno) e non potendo nemmeno guardare dentro la scatola perchè è chiusa, finché non la apriamo non potremo mai conoscere la sorte del povero felino. Come sta? Sarà incolume? Sarà andato al Creatore? Sarà geneticamente mutato in Wolverine? La risposta è la summa di qualunque approccio probabilistico alla vita: boh. Il che, detta come la direbbe un fisico alla mensa, suona ufficialmente più o meno così: nel lasso di tempo in cui sta dentro la scatola, il gatto è contemporaneamente sia vivo che morto. Da cui il nome con cui tutto l’ambaradan è stato tramandato nei secoli dei secoli: paradosso, appunto.
Ecco.
A oggi, possiamo affermare che i Decemberists sono stati uno dei più grandi paradossi dell’indie-rock: per rimanere in tema, diciamo l’indie-band di Schrödinger. In altri termini, mettendola giù in maniera sintetica e brutale: una delle poche band (forse l’unica) del panorama indipendente americano a riuscire ad essere contemporaneamente sia di nicchia che di successo.
Accasati ormai da tempo sotto il tetto confortevole di una major (la Capitol) e con in saccoccia un album che ha debuttato direttamente al numero 1 della classifica di Billboard (The King Is Dead, anno del Signore 2011), non sono mai riusciti (non hanno voluto? Solo loro sanno la risposta) a entrare sul serio e definitivamente nei salotti buoni del vero mainstream, quello che ti fa riempire gli stadi anche se hai la masochistica sfortuna di usare un banjo per comporre le tue canzoni (Mumford and Sons, sto parlando di voi). Ormai a tutti gli effetti un’istituzione, i Decemberists hanno ricevuto quella che al di là dell’oceano è — ancor più che una cover da parte di Marianne Faithfull alla corte di David Letterman — una vera e propria investitura che ti tatua addosso in maniera indelebile l’etichetta di gruppo cool: comparire in una puntata dei Simpsons. Eppure, anche in questo caso, il potenziale endorsement da un milione di dollari è arrivato come simbolo di un fenomeno di cui non andare propriamente orgogliosi: lo strano processo di “hipsterizzazione” di Springfield messo in moto da Homer dopo aver incontrato un tizio con il pizzetto, gli occhiali da pentapartito e i risvoltini ai pantaloni, proprietario di un food truck.
Riassumendo: in maniera del tutto analoga all’incertezza riguardo alle condizioni del gatto di Schrödinger, anche per la band di Portland c’è stato un momento in cui avresti potuto metterla sullo stesso piedistallo dorato e kitsch dei Lumineers, così come chiuderla in quello sgabuzzino per intenditori dove avevi gelosamente nascosto i Neutral Milk Hotel. E probabilmente non avresti sbagliato in nessuno dei due casi.
Detto questo, è innegabile che nel corso degli anni, Colin Meloy e compagni siano riusciti a sviluppare uno stile di scrittura e una musicalità del tutto personale e immediatamente identificabile, fatta di consapevoli tuffi in un passato reso attuale nella maniera meno scontata, riempiendolo di buffe assurdità, sontuose storie di personaggi atipici e cerebrali meccanismi narrativi sempre in bilico tra un fatalismo così caustico da sfiorare il nichilismo e un coraggio provocatorio al punto da consentir loro di infilare l’Infinite Jest di David Foster Wallace dentro un videoclip pop.
Dopo è andata come doveva andare, ovvero che il flusso delle cose ha seguito quella regola non scritta, ma pressoché fisiologica, secondo la quale ogni band, prima o poi, ha bisogno di una rinfrescata, o almeno di riconsiderare il proprio sound, non importa quanto funzionale, raffinato e perfetto sia diventato nel corso di una carriera. Una qualche forma di stagnazione creativa arriva per tutti, anche per gente come i Decemberists, i cui dischi mai ci hanno risparmiato una certa instancabile verve e una loquacità arguta, ai limiti della logorrea. Dopotutto, basta chiedere a un qualunque terapista di coppia: alle soglie dei diciassette anni insieme, quella brutta bestia chiamata abitudine tende a prendere inesorabilmente il sopravvento. Anche se un ménage a cinque, invece che a due, lascia indubbiamente aperte più combinazioni per sperimentare, è comunque normale che a un certo punto salga la voglia di sondare qualche territorio ancora inesplorato. È per questo che hanno inventato i club privé per scambisti.
Nello specifico, se il tuo mestiere è scrivere canzoni, capisci che quel momento è arrivato quando su internet cominciano a girare video come questo.
In ogni caso, che sia stata una reazione alla percezione diffusa che spesso li ha dipinti come un branco di pretenziosi radical-chic prestati alla scena indie, un certo malessere di mezza età o la paura di diventare in qualche modo un cliché, il dato di fatto è che il loro ottavo disco, I’ll Be Your Girl, ci era stato venduto come il primo di un nuovo corso: i Decemberists 2.0 che mettono da parte le chitarre acustiche, fanno “ciao” con una manina al vecchio produttore hipster Tucker Martin mentre con l’altra danno un caloroso benvenuto al più tamarretto John Congleton (Blondie, Lana Del Rey, St. Vincent), gettandosi subito dopo nelle onde di una qualche wave, a sperimentare con i sintetizzatori, felici come bambini davanti alla prima confezione di LEGO® da montare, smontare e rimontare a piacimento.
Col senno di poi, il colossale fraintendimento è cominciato un paio di mesi fa, in occasione dell’uscita del primo singolo Severed, che sul serio — senza trucco e senza inganno — non aveva niente di acustico, ma anzi era un’ottima cavalcata electro-pop che cercava di svelarci come suonerebbero i Roxy Music se si cimentassero con un pezzo dei Joy Division (la risposta è scontata: come i New Order). Un riff di chitarra abbastanza velenoso e un basso dalle spalle larghe, uniti a dei synth glaciali e a un testo che scimmiottava la retorica autocratica della recente campagna trumpiana, davano al tutto una sorta di visceralità alla Xiu Xiu e un “tiro” che mai avevamo trovato nel lavoro di chi ci aveva abituato a roba tipo The Mariner’s Revenge Song.
Tutto secondo i programmi sbandierati nel comunicato stampa, dunque. Non fosse che l’episodio si è rivelato praticamente isolato e alla resa dei conti trova pochissimi momenti simili nel resto del disco.
Quando una band annuncia con troppa insistenza la volontà di uscire dalla propria comfort-zone, apparecchiando la tavola a priori per una sedicente necessità di mischiare le carte e di andare a cercare nuove sonorità, raramente è un buon segno: sa troppo di un tentativo premeditato di mettere le mani avanti per evitare che qualcuno ci rimanga male. Quando poi la canzone scelta per promuovere questo cambiamento epocale risulta più o meno l’unica che rispecchia le nuove guideline, i sospetti iniziali non fanno che gonfiarsi e cominciano ad assomigliare in maniera preoccupante a un colpo gobbo — altrettanto premeditato — architettato con il secondo fine di fregarti con una supercazzola.
Non credo sia questo il caso dei Decemberists: non credo ci sia traccia di premeditazione maliziosa, tra le note di I’ll Be Your Girl, così come credo che la voglia di rinnovamento che ha portato Meloy ad affermare «we wanted to free ourselves from old patterns and give ourselves permission to try something different» fosse genuina e sincera. È solo che ai Decemberists viene spontaneo fare i Decemberists, come a un cane viene spontaneo abbaiare o a un gatto entrare in una scatola, anche se contiene un diabolico marchingegno a base di uranio, cianuro e fantasia nerd: non possiamo biasimarli per questo, e sinceramente nemmeno ci dispiace troppo, la cosa. Alla fine della fiera sappiamo che la maggior parte delle loro composizioni sembra sia stata scritta nel quindicesimo secolo all’ombra dei rami della foresta di Sherwood e quindi è quasi confortante — già all’alba della seconda traccia (Cutting Stone) — ritrovare quelle atmosfere da menestrellata medievale che ci fa immaginare il frontman della band appollaiato su una quercia, a strimpellare una chitarrina, vestito in Lincoln green manco fosse il gallo di Robin Hood, mentre racconta novelle in rima di viaggiatori sperduti e incanti d’altri tempi.
Come nel tentativo di raggiungere un compromesso tra ciò che sono stati e ciò che vorrebbero essere, ciò che effettivamente sono, in questo momento, i Decemberists, si costruisce progressivamente per contrasti, abbinando liriche oscure da murder ballad ad arrangiamenti colorati al pari della copertina dell’album, con una sfacciataggine che sfiora l’humor nero, utilizzando la ripetizione ossessiva come arma a doppio taglio per conquistare con lo sforzo minimo sindacale l’attenzione dell’ascoltatore. Così il concetto di Everything Is Awful è accompagnato da una musica da Zecchino D’Oro, Once In My Life viene messa in rima con un supplichevole “could just something go right?” ma suona come un divertito arena-anthem e un ritornello disperato che nemmeno ai tempi del grunge (We All Die Young) finisce in bocca a un coro di bimbetti entusiasti quanto inconsapevoli, mentre il tutto si conclude — quasi inevitabilmente, direi — con una specie di ritorno alle origini che manda in vacca qualsiasi idea rivoluzionaria: Rusalka, Rusalka / Wild Rushes si prende otto minuti abbondanti di magnificenza decadente per tenere fede al suo titolo — drammaticamente compatibile con i tre chili di carta di un romanzo russo di metà Ottocento — e va direttamente a porsi tra i migliori pezzi dei Decemberists che conosciamo.
I Decemberists che conosciamo sono quelli che fanno una cosa molto particolare: un prog-folk-rock anglofilo come la regina Elisabetta, stracolmo di riferimenti letterari e ornato di una certa teatralità noir, che non disdegna aperture più groovy e pestate ma sempre eloquenti e cariche di pathos come le rime di un bardo di corte. Lo fanno bene, parecchio bene: così bene che non possiamo nemmeno volergliene troppo se ogni tanto sentono il prurito di deviare su qualcosa di diverso, anche quando il risultato del tentativo in questione potrebbe rischiare di essere niente altro che la riaffermazione di quanto sanno fare bene quella cosa molto particolare.
Insomma, concludendo, bisogna dar loro atto di averci provato, a uscire dal proprio iniziale paradosso di Schrödinger. Peccato che, nel farlo, siano rimasti incagliati in una nuova versione dello stesso impasse. I’ll Be Your Girl è infatti una specie di esperimento a metà, in cui convivono — allo stato attuale delle cose, con identica probabilità di prevalere — sia i vecchi che i nuovi Decemberists. Dovremo aspettare di aprire la scatola (leggi: ascoltare il prossimo disco) per scoprire con certezza quale delle loro due incarnazioni è sopravvissuta e quale scomparsa, se i nuovi orizzonti saranno diventati una strada da percorrere senza timore, o se invece dovranno essere derubricati come l’abbaglio di un azzardo fallimentare.
Empirismo, si chiama.
Altro che fisica quantistica.