Come se il tempo non fosse mai passato.
Questo viene da pensare appoggiando la punta di diamante sul vinile (o inserendo il disco nello stereo o, più verosimilmente, premendo play su spotify) di Born In The Echoes (Virgin EMI), ultimo lavoro dei Chemical Brothers.
A distanza di cinque anni dall’imperdibile Further (2010, Freestyle Dust / Parlophone) e preceduto da una colonna sonora (Hanna) e un disco live (Don’t Think), il duo di Manchester torna a ribadire la propria idea di musica elettronica, partorita ormai vent’anni fa col salvifico avvento del big beat.
Ogni cosa è al suo posto in quest’ultimo brillante lavoro: i beat rigorosamente uptempo, i bassi che dominano costantemente la scena e i featuring che, da più di vent’anni, sono un autentico punto d’incontro tra elettronica, rock e hip-hop. Ostinatamente old school, i cinquanta minuti di Born In The Echoes ci proiettano in un’unica discoteca globale, priva di consumazione obbligatoria, timbri sulle mani e inutili dress code, in cui tutti parliamo la medesima lingua.
Se è vero che il disco colpisce per un suono più lisergico dei lavori precedenti, è anche vero che gli episodi migliori sono quelli in cui i due fratelli chimici prestano la voce a terzi: non a caso due dei tre signoli che hanno anticipato l’uscita di questo album, Go e Under Neon Lights, si avvalgono della collaborazione, rispettivamente, di Q-tip, già in Galvanize e fondatore degli A Tribe Called Quest e dell’incredibile St. Vincent. Nel pezzo conclusivo, Wide Open, figura anche un Beck in forma smagliante.
Con questo ultimo disco Tom Rowlands ed Ed Simons non si confermano soltanto come la più longeva, prolifica e infallibile formazione nata dal big beat inglese (soprattutto se pensate ai rispettivi passi falsi e anni di silenzio di Prodigy e Fatboy Slim), ma anche quella più caparbia nell’affermazione del proprio concetto di elettronica: globale, trasversale e catartica.