Ho deciso che questa recensione, prendendola molto alla larga, inizierà con una piccola ammissione. Sarei stato più duro nel mio giudizio (per quanto può contare) se questo album fosse stato di qualcun altro. La questione è che si tratta dell’ultimo lavoro dei The Black Keys: autori di alcuni degli “anthem” fondanti della mia adolescenza, come Lonely Boy, Ever Lasting Light e tutto l’album Brothers; beniamini che campeggiano in un poster sopra il letto della mia cameretta di studente universitario.
Posso dire quindi di sentirmi molto coinvolto emotivamente e non sto dicendo che non sarò imparziale ma solo più comprensivo, perché verso Dan Auerbach e Patrick Carney provo gratitudine, per ciò che — non solo a me — hanno offerto attraverso la loro musica. Terminato questo momento da “posta del cuore”, posso affermare che questo lavoro non mi è dispiaciuto, ma non sono nemmeno davvero certo del contrario.
Questo è il nono album in studio (pubblicato per Nonesuch Records) per il duo di Akron, in Ohio. Dopo il biennio 2010/2011 in cui sono usciti i due dischi che di fatto li hanno consacrati ufficialmente (Brothers ed El Camino) al grande pubblico erano tornati nel 2014, con Turn Blue.
Questo passaggio ha segnato uno snodo cruciale nella storia di questi due artisti: non riuscirono a convincere con quel sound. Ripresero alcune sonorità del loro Magic Potion, mescolandole a uno stoner rock un po’ sbiadito. Un momento di transizione, in cui hanno deluso le aspettative di chi li voleva ancora crudi e convinti del loro garage-blues-rock. In seguito decisero di prendere una pausa dal progetto, per dedicarsi a lavori da solisti e altre importanti collaborazioni.
Ed ecco che Auerbach e Carney tornano nel 2019 un po’ a sorpresa, dopo aver rilasciato dichiarazioni che alludevano al peggio. Sono riusciti a farlo nel modo che credo sia il migliore possibile per due musicisti.
Si sono ritrovati e chiusi in studio, con l’intento istintivo e basilare di suonare di nuovo insieme. Semplice quanto efficace, comporre ed eseguire pezzi che si ispirano e ricordano i grandi classici del rock. Quel rock puro che rimanda immediatamente all’immaginario fatto di fulmini e saette che ha costituito la narrazione di molte storiche rock band, primi su tutti gli AC/DC.
Non a caso l’album si intitola Let’s Rock, che è una dichiarazione d’intenti.
Ad aprire le danze c’è la sensuale Shine A Little Light composta di riff di chitarra travolgenti, a seguire Eagle Birds con degli assoli davvero niente male. In questo disco hanno deciso di liberarsi di tutto ciò che i fan recriminavano a Turn Blue, ossia di quella psichedelica solo abbozzata e tutti quegli arzigogoli molto poco garage rock.
Batteria, chitarre distorte e coriste che pensavamo passate, suonano bene anche nel 2019 e che tutto sommato un po’ mancano.
Tra le tracce notevoli mi sento di inserire Every Little Thing, che è coinvolgente, danzereccia e in pieno stile Black Keys con questi acuti di chitarra che si incastrano perfettamente tra i ritmi della batteria.
Il difetto principale di questo disco è il sentimento di “questo l’ho già sentito da qualche parte” che si scatena nell’ascoltatore dai primi 15 secondi e permane fino all’ultimo brano. Un esempio lampante è Sit Around and Miss You, che è Stuck In The Middle With You degli Stealers Wheels sotto mentite spoglie, ma conoscendo i Black Keys è chiaro che si tratta di una citazione.
Un altro aspetto che non ho apprezzato, totalmente avulso dalla questione musicale, è la copertina: bruttarella, con questa sedia elettrica rosa e un po’ troppo alla Rock n’ Roll High School (il film coi Ramones del ‘79).
Ricapitolando, Let’s Rock è un lavoro ben eseguito, un tributo al rock che non sporca la reputazione di questo gruppo e che suona vagamente come un canto del cigno. Potrebbe essere la loro ultima apparizione come Black Keys?
Hanno mantenuto i loro impeccabili standard d’esecuzione e hanno chiuso la pratica Turn Blue, creando continuità diretta con Brothers ed El Camino. Un album forse un po’ carente dal punto di vista creativo, ma che all’ascolto è piacevole, specie se sei cresciuto con il classic rock.