Mentre attendo che Itunes importi le dodici tracce di un album che in definitiva ho ascoltato pochissimo, torno indietro con la memoria al 2007. Ho letteralmente sottratto due cd originali dei Radiohead da una colonnina di una casa come tante. Quella specie di scaffale me lo ricordo bene, è uno di quelli che s’insinuavano negli anni ’90 in quegli ingombranti ma altrettanto affascinanti impianti Hi-Fi. Quello stereo aveva addirittura un ripiano con una serie di vinili decisamente vecchi, ma quelli non mi azzardavo neanche a guardarli di soppiatto, figurarsi a rubarli. Non sarei di certo passata inosservata con un vinile sottobraccio.
Insomma, avevo infilato nella mia borsa Pablo Honey (1993) e The Bends (1995). Era stato più uno sfizio dettato dalla voglia di avere nel mio misero e ben più ridotto stereo Sony degli album originali degni di nota. Tornai a casa e osservai bene le due copertine. Le avevo guardate milioni di volte ed entrambe mi avevano sempre attratta per la grafica, soprattutto The Bends.
Una volta a casa guardai di nuovo il mio bottino. Poggiai sul tavolo Pablo Honey pensando che il bambino in copertina mi stava fissando insistentemente con quei suoi occhi curiosi. Tenni stretto tra le mani The Bends, osservando per l’ennesima volta quella copertina. Lui invece, l’inquietante uomo dagli occhi chiusi, non mi stava guardando affatto. Era impegnato in quello che avevo decretato come l’espressione del godimento.
Scelsi di ascoltare The Bends solamente perché qualcosa in quella copertina mi aveva fatto scattare la scintilla. E non sbagliai. Ogni volta che ascoltavo cd originali facevo sempre la stessa cosa, era diventato una specie di rito sfogliare i libretti. Così sfilai con cura quello dell’album e mi ritrovai davanti a scarabocchi; frasi come: “It’s so beautiful up here/ I don’t ever want to bend” e disegni di alieni che sembravano dire di non capirci niente tra tutte quelle parole. Dopo ho capito che anche i pezzi dicevano esattamente ciò che il disegno dell’alieno esprimeva semplicemente allargando le sue braccia.
Quel senso di smarrimento, ritrovato nei pochi occhi degli sguardi presenti nelle illustrazioni, in quei testi quasi ridotti all’osso e nella voce sbadigliante di Tom Yorke, in quell’esatto momento mi sembrava che fosse ciò che meglio dipingeva la fine di una fase della mia vita e l’incertezza di ciò che avrei trovato oltre quella conclusione. Allora, esattamente come gli struzzi disegnati sul testo di Black Star, nascondevo la testa sotto la terra per evitare di guardare in faccia la realtà.
Una volta, anni dopo averli rubati, avevo deciso di portarli in una Cinquecento nera, una di quelle che, quando il tipo che la guidava passava a prendermi nella villetta dietro casa, rombava manco fosse un elicottero in fase di atterraggio. Presi sia il bambino di Pablo Honey, sia l’uomo di The Bends, che tuttora non capisco se mi faccia più paura o se mi lasci ipnotizzata con i suoi occhi chiusi e la sua bocca aperta.
Decisi che in casa non avevano la giusta attenzione e così proposi alla persona della rumorosissima Cinquecento nera di ascoltarli insieme. Entrambi però eravamo ignari che quella macchina avrebbe deciso di morire dopo una breve e inaspettata agonia a fine dicembre. Così l’elicottero in cui avevamo fumato, ascoltato centinaia (o migliaia?) di pezzi e litigato altrettante volte, decise di abbandonarci, e con esso dimenticai di aver conservato i miei cd al suo interno.
Bisogna dire che per portarli in quell’auto avevo deciso poi di separare il cd dalla sua custodia. I libretti sono una specie di feticcio e quelli, se fossero andati persi, sarebbero stati assolutamente irrecuperabili. Il libretto di The Bends poi mi piaceva particolarmente per il modo in cui i testi e i disegni dell’illustratore di Stanley Donwood erano combinati tra loro. Era come se tutto quello, insieme ai brani dell’album, creasse un tutt’uno coerente e decisamente forte dal punto di vista comunicativo, nonostante ciò che mi arrivasse era il più puro spaesamento che l’essere umano potesse provare davanti allo svolgersi delle più piccole cose della vita.
Perciò avevo conservato la custodia in una di quelle scatole di scarpe in cui si accumulano tutti i più o meno piccoli oggetti che altrimenti andrebbero irrimediabilmente persi. La Cinquecento ormai era stata portata allo sfasciacarrozze e l’unico pezzo che era rimasto con me era la maniglia che permetteva al sedile di essere inclinato in avanti per far accomodare i passeggeri sul sedile posteriore. Anche quella maniglia andò a finire nella scatola delle scarpe, come prova che in quei contenitori non ci vanno solo le scarpe, ma anche maniglie di auto rottamate, custodie di album degli anni ’90, accendini che non funzionano ma che sono troppo belli per finire nel bidone dell’indifferenziata, pietre dalle sfumature viola e altri oggetti dalla dubbia provenienza ma dal fascino dell’imprendibile.
Avevo perso di vista The Bends, o meglio il cd di The Bends, ormai da anni. La sua custodia era ancora riposta nella scatola, e quella la tengo saldamente d’occhio per via di certi oggetti che non vorrei assolutamente perdere. Credevo in realtà che il cd fosse nella sua custodia, quando il fratello del tipo della Cinquecento, in un sabato pomeriggio assolato, mi chiede se conosco quell’album. Parte Planet Telex:
Cazzo se lo conosco, questo è il mio The Bends!
L’ho ritrovato inserito nel lettore cd della Cinquecento.
Wow, pensavo di averlo perso. Grazie.
Di niente.
Ehi, mica hai trovato anche Pablo Honey?
No, soltanto questo.
Mi infilo in macchina, lo inserisco e tutto torna perfetto nel suo smarrimento. Io, [Nice Dreams], il tizio della Cinquecento – che ora guida un’altra auto – e le mille sigarette. Solo una cosa mi sembra cambiata: adesso è possibile restare in silenzio davanti a quella sensazione di inadeguatezza, magari utilizzarla come il sole in un freddo pomeriggio invernale per scaldarcisi il volto senza pensare di essere una nullità, con solo in testa: If I could be who you wanted all the time.