Non ci siamo mai meritati Sufjan Stevens

Sufjan Stevens The Ascension

La musica di Sufjan Stevens, più che alla poetica, si rifà alle pagine di un personale trattato esistenziale, come un phármakon che Sufjan dedica alle anime metropolitane. Se quello che colpiva di più della sua musica era il candore spiazzante che veniva accompagnato dalla chitarra acustica e dal banjo, la trama folk e quelle parole amare in grado, allo stesso tempo, di dare un senso di calma ed empatia rara quando venivano pronunciate, in The Ascension questa magia si ribalta, segnando un distacco quasi crudele da ciò a cui eravamo abituati. Sin dalle prime note il tono si fa ossessivo, il clima frastornato e tutto suona come ultimatum. La necessità di ascendere, da questo punto di vista, sembra essere indirizzata a noi perché Sufjan, una volta ancora, si è lasciato cadere quaggiù.

Carrie & Lowell era stato un profondo commiato alla madre e al patrigno a cui sono seguiti cinque anni di silenzio, tranne qualche scappata su colonne sonore più o meno autorizzate e nuovi progetti come Planetarium in collaborazione con Bryce Dessner (la cui mano compare anche nei brani più eterei di The Ascension) e Aporia con il patrigno Lowell. I brani studiati per Call Me by your Name (Mistery of Love e Visions of Gideon), sembravano aver celebrato una consacrazione e una pace, almeno artisticamente parlando, raggiunta per Stevens, il cui messaggio sembrava essere finalmente destinato oltre la nicchia dei suoi fedelissimi seguaci.

 

 

Sperimentazione non è mai stato un termine legato necessariamente a Sufjan Stevens, come solista, è accaduto perché da subito è stato chiaro come giocasse su un altro campo, un mondo altro rispetto al folk spirituale, il songwriting religioso o qualsiasi legame con l’indie delle vallate. Più che New Age, quella di Stevens, è sempre stata una rivoluzione dei livelli di delicatezza che non sembrava mai finire. Ecco, The Ascension, è sicuramente il disco più maleducato della sua produzione, volontariamente più sporco e disorientato, immagine di un’America che ha perduto la grazia. Non più, allora, praterie nel Midwest in cui celebrare la natura e la bontà ma la paura, le allucinazioni, la solitudine senza illuminazioni riprodotta in suoni metallici, meno umani e più standardizzati.

I should have resigned myself to this
I thought I could change the world around me
I thought I could change the world for best
I thought I was called in convocation
I thought I was sanctified and blessed

Questo richiamo ultimo avviene, a differenza di tutti gli altri, da un luogo del tutto distaccato. A 45 anni Sufjan ha abbandonato Brooklyn per le Catskills per ritrovarsi in solitaria a comporre con una drum machine e qualche synth. La manipolazione paradossale della materia elettronica, spinta al minimalismo più crudo rispetto alla liricità angelica delle passate produzioni, sembra voler reinterpretare la modernità, piegandola – però – al suo lato più essenziale e, inevitabilmente, provocatorio. Una serie di riproduzioni binarie fanno da sfondo a Make Me an Offer I Cannot Refuse, in cui il ritornello, nella sua ripetizione, apre a un climax che si conclude in un rumorismo finale pieno di tensione.

È nel senso di perdita – di luce, di speranza – che The Ascension disvela il suo valore, ciò che possiamo presumere voglia dirci Sufjan Stevens, che non è mai voluto essere profeta (I don’t wanna be your personal Jesus / I don’t wanna live inside of that flame / In a way I wanna be my own believer) ma si è ritrovato a essere in qualche modo una guida proprio perché così differente da tutto il resto, così Sufjan da non sembrare vero. La verità è che non l’abbiamo mai meritato. Che sia voluto o no, The Ascension è un disco pieno di un’angoscia persistente che si chiude, come nel migliore dei romanzi di dissoluzione, nell’accusa alla propria America (interiore), al sistema sociale e sentimentale non più sostenibile, non più destinato all’ascensione che Sufjan stesso si era augurato.

I brani The Ascension e America sono parte dello stesso ragionamento, del disegno in cui Sufjan ha cercato di inserirci per tutta la sua carriera. Non riparandoci dietro immagini di felicità ma bilanciando sconfitta e accettazione, dolore e gioia, completandosi nell’accorato finale strumentale di America su cui la luce, per una parte lunghissima, torna a splendere. In questo disco, così complicato e lontano, Sufjan rimane quel fratello che si trova dieci volte più in alto di noi ma che scende quaggiù, per non lasciarci soli.

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