a cura di Mara Stefanile
8 Novembre, mattina
A: «Zizek sarà contento.»
C: «Anche io, contento.»
A sta scrivendo…
Sale il caffè
A: «Io no.
Cioè, adesso sono curioso, ma credo onestamente che la sola cosa che avverrà, consisterà in un sensibile (ma chi lo sa quanto? io no) peggioramento delle condizioni di vita delle fasce meno forti della popolazione americana. Nel senso che razzismo e idiozia avranno gioco sicuramente più facile di quanto ne avessero prima.»
C: «Secondo me, al netto dell’endrosment per Trump, la posizione di Zizek ha valore nella sua previsione di ciò che avverrà.»
Faccio colazione, e mentre leggo i miei amici A. e C. scambiarsi le loro prime impressioni sul voto americano, me li immagino spingere i tastini degli smartphone con cui mi scrivono, dalle rispettive tazze del cesso: una a poche manciate di chilometri da casa mia, e l’altra, nella città universitaria di ****, in ******, dove C. studia e lavora al dipartimento di Storia.
A. e C. infatti, sono legati da problemi assai simili nel tratto intestinale, oltre che dall’anno di nascita che li approssima all’età di Cristo. Oltre che da una, tutto sommato godibile, dose di vanità e sarcasmo.
Con me condividono la frequenza dello stesso asilo “L’ippocampo”. Due piani di moquette verde, ricavati all’interno di un lido della nostra città con la sabbia nera e piena di carcasse di gabbiani, che non era poi così male, non fosse stato per la pasta asciutta, troppo asciutta, e i 15 punti di sutura sulla testa.
C: «Questo è l’articolo
Slavoj Zizek On Clinton, Trump and the Left’s dilemma
To paraphrase Stalin: They’re both worse.»
C sta scrivendo…
C: «e comunque questa è la grande sconfitta “dell’intersezionalità-liberal e multiculturale”.
La working-class vota per difendere il salario.»
C. lo incontravo sempre durante le manifestazioni al liceo, vestiva di nero e portava una keffiah, i capelli scuri sulle spalle, rideva sempre.
Erano gli anni zero, gli anni delle proteste per la legge Biagi, del G8 di Genova, del No Global, dell’11 Settembre, della Guerra in Iraq e Afganistan.
Adesso porta una montatura di osso e sta provando a diventare vegano, anche se la sua più stringente preoccupazione al momento consiste nel riuscire a recuperare delle anfetamine, per provare a concentrarsi e completare i paper a cui sta lavorando.
Questa estate è stato nel West-bank a studiare, mi ha raccontato di aver pomiciato con un’americana dalle unghie lunghissime, come quelle di Florence Griffih-Joyner e Yolanda Gail Devers.
A: «E in che misura Trump garantisce ciò?»
C: «In NESSUNA!
Ma ha parlato a quelle necessità. I colletti blu hanno votato Trump in massa.
L’establishment ha votato Hillary.»
A sta scrivendo…
A: «Vabbè, premesso che non mi convince proprio sta lettura così netta…Non è che
l’Ohio sono i contadini e la California l’establishment.
Ma cosa conduce l’operaio a pensare che Trump gli protegga il salario?
Il muro al confine col Messico?
Perchè a quanto pare l’operaio californiano ha votato Hillary.»
C: «Io sto dicendo che la classe operaia, nonostante tutto, pensa a proteggere il salario, e se ne fotte dell’omofobia, della misoginia e del razzismo.»
Quello che A. non ha considerato è la Rust Belt, la fabbrica arrugginita d’America, nella zona dei Grandi Laghi, il Midwest e la sue trasformazioni urbane, economiche e sociali che sono il tessuto connettivo dal quale è venuto fuori il caso Ferguson, il caso capitano di una nuova ondata di omicidi da parte delle forze di polizia a sfondo razzista.
Il profondo decadimento urbano ed economico conseguito alla de-industrializzazione ha dato luogo alla nascita del suburbio dove nel corso degli anni si è rannidata la minoranza bianca a medio-basso reddito, e degli hyper-ghetto a maggioranza nera, producendo un’asprissima tensione sociale.
Quello che A. non ha considerato è la cosiddetta, spregiativamente, white trash. Cioè quella fetta di working-class del Midwest composta da bianchi, che si caratterizza per un certo risentimento razziale, un basso livello d’istruzione e un totale disinteresse per i vessilli culturali della sinistra. Sed working-class.
«Io sto dicendo che la classe operaia, nonostante tutto, pensa a proteggere il salario, e se ne fotte dell’omofobia, della misoginia, e del razzismo.»
Molte sono state a sinistra le voci che si sono levate a profetizzare in qualche modo, questa contraddizione scomoda per l’establishment neoliberal che Hillary Clinton incarna.
Il documentarista Micheal Moore, per esempio, di smaccata fede democratica, pur invitando a votare comunque per la Clinton, con “il naso turato”, aveva colto in un post del suo blog, antecedente al voto, esattamente il punto che ha portato Donald Trump a vincere le elezioni presidenziali americane, e a sviluppare un’aura da improbabile Robin Hood palazzinaro.
Moore osserva come Trump abbia archiviato la vittoria negli stati chiave della Rust Belt nel momento esatto in cui ha parlato di come il NAFTA, sostenuto dalla Clinton, abbia contribuito a distruggere gli stati industriali dell’Upper Midwest. E ancora (immaginate la scena), quando all’ombra di una fabbrica Ford nel Michigan ha arringato la folla, dicendo che se la corporation avesse delocalizzato in Messico, avrebbe imposto un’accisa del 35% su ogni macchina costruita in Messico e rispedita negli Stati Uniti. Va da sé allora che, per dirla con Moore: “it was sweet sweet music to the ears of the working class of Michigan”.
C sta scrivendo…
C: «Come dice Zizek, scoprendo l’acqua fredda, bisogna smetterla con questa retorica del “we are all the same” (che tiene assieme il centro-sinistra, n.d.a). Io sto parlando di un discorso pubblico, non credo in alcun modo che la classe operaia possa beneficiare di questa situazione.»
A: «Onestamente, la mia sensazione è che tutto questo abbia poco a che fare con la
struttura, e molto con la sovrastruttura.»
C: «Si, si. Anche io sto parlando di sovrastruttura.
Anche perché il sistema rappresentativo americano è solo sovrastruttura.»
Slavoj Zizek, come molti altri, ha letto la vicenda in una prospettiva, mi viene da dire, romanticamente marxista. Vale a dire, dal momento che entrambi i candidati sono il “male peggiore”, di fronte a questa non-scelta, l’unica possibilità possibile consiste nell’agire strategicamente, e scegliere il candidato la cui vittoria possa favorire a lunga gittata la realizzazione del progetto di emancipazione radicale della sinistra.
“« E in che misura Trump garantisce ciò?»”
Naturalmente il punto non è votare per Trump, che Zizek stesso definisce un volgare opportunista nonché bancarottiere esperto. Né tanto meno (ci mancherebbe altro!) battezzare Trump come il nuovo Saint-Simon.
Piuttosto si tratta di usare la mostruosità di Trump per obbligare la Sinistra ad una radicale riorganizzazione: se Obama allo slogan trumpiano risponde che l’America è già grande, mortificando il malessere delle classi più basse, nonché le minoranze stesse, allora abbiamo un problema. Se il liberalismo democratico all’apice della sua parabola, dopo un presidente nero, formula come miglior candidato una wasp guerrafondaia e snob che si fa interprete degli interessi di Wall Street, delle lobby sanitarie e informatiche, e che perde le roccaforti democratiche del Wisconsin, del Michigan e della Pennsylvania, allora abbiamo un problema.
Se la sinistra (liberale) invece di derubricare l’elettore di bassa estrazione sociale e poco emancipato culturalmente come white trash, ricominciasse a parlare a quelle necessità, e le strappasse al bacino delle destre populiste; e se, invece di specchiarsi nella acque narcise del diritto individuale imborghesito e degli interessi economico-politici dell’establishment, si ricominciasse a parlare di diritti sociali popolari, allora, e solo allora finalmente, qualcosa di vivo ricomincerà a scorrere nella vene, ed una nuova, vera, sinistra potrà ritornare forte.
Questo è un pensiero che possiamo usare per interpretare anche le vicende di casa nostra, in Europa, dove il voto Brexit ha avuto una genesi molto simile. Oltre che ça va sans dire, per il nostro Referendum costituzionale del 4 Dicembre.
A: «Immaginare che la propria rinascita, possa essere determinata da qualsiasi mutamento, nella struttura nel mio avversario, è un’idea infelice.»
C: «Ma non è questo quello che intendo dire.»
C sta scrivendo…
C: «C’è poi la questione dell’augurarsi tutto il male possibile per gli USA, come per il Vaticano. Per cui ben vengano Trump e Ratzinger, invece che Obama e Francesco.
Se vuoi che un’istituzione scompaia, devi augurarti che abbia pessimi leader. Per tacere dell’imperialismo di Clinton.»
A sta scrivendo…
A: «Disaccordo al 100%. Questi discorsi non fanno per me, non mi interessano neanche. E’ irrilevante l’imperialismo di Hillary per me. Così come non penso che alcune istituzioni debbano scomparire.»
C: «Ho letto da qualche parte, ma non ricordo dove, una cosa tipo: “Dear liberals, this is not your defeat, you’re just looking at yourself in the mirror”»
A:«Ma veramente, penso ci siano molte idee di sinistra, e la mia penso sia molto diversa dalla tua. Io credo che Trump sia la risposta, perfettamente coerente, al desiderio di bestialità, brutalità e ignoranza che predomina ovunque.»
C: «Secondo me è anche la risposta (sbagliata) alla crisi liberista e culturalmente liberal. Continuare ad attaccare Trump su razzismo e misoginia, non sposta un voto. La sinistra deve parlare di lavoro e salario.»
A: «Comunque non bisogna dimenticare che gli Stati Uniti sono un paese senza maternità e ferie pagate, dove gli unici sindacati seri sono quelli di hollywood (ma in effetti la California fa storia a sé).»
A. l’ho conosciuto nel 2000, e con lui avrei conosciuto anche la grande ouverture della mia adolescenza. Aveva un carattere esuberante che compensava bene la mia melanconìa cronica, e non si sentiva mai in colpa per niente, autorizzando così tutti coloro che gli stavano attorno ad una forsennata, per quanto salvifica, indolenza.
Io e A. parlavamo sempre di letteratura americana beat, che poi si sarebbe trasformata in post-moderna negli anni dell’università, di cinema, e di musica, soprattutto.
Il principio di cui si alimentavano questi dialoghi di formazione era la reciproca distruzione, nella più feroce e sanguinaria delle guerre fredde.
Non mi ha mai perdonato il fatto che non mi piacessero i Pearl Jam.
All’improvviso un climax rivoluzionario
C: «Bravo. La sinistra liberal può solo perdere.»
A: «E’ chiaro che la congiuntura dovrebbe spingere i leader della sinistra ad abbandonare la moderazione, in favore di un furente estremismo.»
C: «“Whatever happens, it’s time to bury neoliberalism. We need genuine wealth + power redistribution, only a real left can fight fascism.” Naomi Klein »
Qualunque cosa accada, è tempo di seppellire l’indolenza.
A: «Giornata minima di 5 ore, e tetto massimo al reddito, 2500 euro massimo, 1800 euro minimo.»
C: «e redistribuzione della ricchezza creata dall’automazione. Punto fondamentale…»
C sta scrivendo…
C: «più automatizzi, più ti tasso.»
A: «e a seconda dei profitti che fai, tanto assumi.»
C: «più tasse sui profitti e meno sul lavoro.»
C sta scrivendo…
C: «Trump in questo è più a sinistra della Clinton, è un capitalista Old fashioned.»
In effetti, se l’Imperialismo è la categoria più stringente sulla quale fare un bilancio di queste elezioni americane, è chiaro che l’elezione della Clinton avrebbe condotto ad una rapidissima precipitazione dei fatti negli equilibri internazionali, verso quella che sarà (e in ogni caso, sarà) la Terza Guerra Mondiale. La presidenza Trump metterebbe invece in discussione l’unilateralismo USA/NATO, chiudendosi in una manovra protezionistica, e ritirando l’America dagli accordi TTIP.
Dall’altro lato, l’asse Russo-Cinese, che lavora già in senso strategico, militare, ed economico, e che raccoglie attorno a sé gli stati che principalmente subiscono la minaccia Usa, ovvero Siria e Iran.
Inoltre ci sono già state le prime esercitazioni militari navali congiunte, nel Pacifico.
Qui resta da capire come si muoverà Trump, se vorrà portare avanti il suo programma anti-cinese, cosa che credo si ridimensionerà molto.
Anche perché è difficile immaginare che la Russia resti a guardare.
E l’America le carte per giocarsi questa guerra non le ha, per come la vedo io.
Nel mezzo l’Europa, circondata dalla cintura di fuoco del Nord Africa e del Medio-Oriente, destabilizzata ad Est dalla crisi ucraina, dalle prepotenti ondate migratorie, oltre che dagli attacchi terroristici, è un calderone pronto per lo scoppio di una gigantesca guerra civile.
(Chi si ricorda il famoso “Fuck Europe!” della diplomatica statunitense Victoria Nuland? Ecco.)
Cosa deciderà di fare l’Europa?
C: «Gramsci, “The old world is dying, and the new world struggled to be born: now is the time of monsters”»
Io: «Citi Gramsci in inglese? Ma perché!»
Dopo quindici minuti
Io: «C., Tu li fai i banana pancakes? Eh? Li fai? Come li fai?»
C sta scrivendo…
C: «Col culo.»