A tre anni dalla morte di Leonard Cohen siamo ancora qui a parlarne, dolcemente invasi dai postumi del suo passaggio sulla terra. Come preda di una collettiva sbornia coheniana da cui sia difficile rinsavire, non è stato arduo negli ultimi mesi racimolare materiale inedito che riguardasse il poeta e cantautore scomparso Leonard Cohen. Anche se aveva oltrepassato la nostra dimensione terrena, lui pareva tornare dall’aldilà – ultraterreno e magico: tornava ogni volta sotto forma di parole che di tanto in tanto potevamo canticchiare, tornava coi suoi vecchi dischi che ancora si conficcavano sottopelle mentre li ascoltavamo, tornava nella memoria come il canadese errante che mai si ferma, e infine tornava con tutta l’ispirazione postuma che ancora gli riusciva di gettare nei nostri cuori sbranati. Ora che Leonard se n’è andato sono sempre di più quelli che provano a ricordarlo e omaggiarlo, a cominciare da Adam che ha raccolto la difficile eredità di essere figlio di una persona così ingombrante. A leggere gli spezzoni delle interviste a Adam Cohen si rintraccia sempre un’inquietudine di fondo nelle sue parole: c’è una folla ignota che lo aspetta al varco per sapere se sarà all’altezza. Lui mette le mani avanti – mio padre era un genio, non chiedetelo anche a me – parzialmente insicuro a riguardo di come prenderà il mondo dei vivi questa strabordante invasione di postumi di Leonard Cohen, film, libri, canzoni, omaggi.
Qualche mese fa è venuto fuori un film documentario che racconta la storia d’amore e infinita ispirazione tra Leonard Cohen e Marianne Ihlen, Words of Love di Nick Broomfield. Leonard e Marianne si conoscono sull’isola greca di Hydra, uno di quei luoghi della terra che possiedono tutta una sua aura magica: sull’isola Leonard scrive accompagnato dalla sua musa norvegese. Nei continui andirivieni tra Hydra e l’America, Leonard capisce che ha bisogno di accompagnarsi con la chitarra, mettere le parole al servizio delle canzoni – senza mai rinunciare a quello stile poetico che conosciamo tutti. A Marianne dedicherà canzoni – la più conosciuta è la più immediata, So Long Marianne – e versi, ma non gli riuscirà di offrirle un rapporto esclusivo: era la musa dell’altro lato del mondo che doveva restare lontana, come una sirena di cui si avverte appena il canto. Presto Leonard diventa una sorta di poeta underground della canzone, misterioso e ombroso, che con i suoi versi e la sua voce riesce a far impazzire le donne, mentre Marianne sfuma al riparo nei ricordi di gioventù – resterà comunque viva in Leonard una speciale gratitudine per quella musa distante. Nella mitologia coheniana le donne hanno un posto speciale: sono la fiamma che tiene viva l’ispirazione di Leonard Cohen, le silenziose suggeritrici di parole. E per uno di quei paradossi strani della vita, c’è un’altra canzone che evoca nel nome una donna che ha avuto una certa importanza nella vita di Cohen, Suzanne. Leonard la scrisse prima di incontrare la futura compagna, la pubblicò come poesia nel 1966, e dopo averla prestata a Judy Collins, la incise nel disco d’esordio del 1967, Songs of Leonard Cohen. Solo dopo averla evocata nel nome con una delle canzoni più immortali di tutta la storia della musica, incontrò la sua Suzanne. La misteriosa madre di Adam Cohen, l’uomo che ci ha regalato un’ultima danza in compagnia di Leonard.
Nel mettere insieme il disco Thanks For the Dance, Adam ci ha assicurato che questo sarà l’ultimo album del padre: niente frammenti e scarabocchi da vendere al pubblico. “Non avevo nulla, solo le parti vocali”, ha raccontato in un’intervista alla BBC. “Quando mio padre è morto ci sono voluti sette mesi per prendere coraggio, andare nel mio garage e iniziare a riunire il gruppo di lavoro”. L’intento è stato quello di restare fedeli alla musica di Leonard Cohen per offrire a noialtri un viaggio dentro il suo mondo – lo stesso di “quando ascolti una canzone e la sua voce ti copre, densa e calda, come una coperta”. E quando è venuto fuori il primo singolo a sorpresa insieme all’annuncio del disco postumo, quella connessione ideale con la musica di Leonard si è subito magicamente ri-creata. In The Goal la voce di Leonard è densa e calda come al solito, recita e decanta mentre le chitarre affilate di sottofondo ci fanno regredire fino ai dischi d’esordio del cantautore canadese, dentro una delle sue sopraffine e classiche ballate al vetriolo. C’è qualcosa di rivelatorio nel testo di The Goal, e del resto un altro aspetto da eterno ritorno dell’opera di Leonard Cohen è quella vena mistica e spirituale che incontriamo camminando a caso tra le sue canzoni, a volte sotto forma di vere e proprie invocazioni a una divinità – come quando canta “Hineni Hineni I’m ready, my lord” nella struggente You want it darker – e altre prendendo direttamente dalla formula della preghiera per modellarci sopra indimenticabili canzoni di tensione amorosa come Hallelujah. The Goal affonda dentro una dimensione da religione più orientale, ha più a che fare con l’esperienza buddhista di Cohen che con la sua origine ebraica, la sua rivelazione finale somiglia a una pillola di saggezza, una presa di consapevolezza da dispensare: and nothing to teach / except that the goal / fall short of the reach.
“e me ne sto qui tra la tua salvezza
e l’assassino alla porta”
La fiamma, il libro che raccoglie le poesie e gli appunti di Leonard Cohen appena uscito in italiano per Bompiani, si apre con i versi di Accade al cuore – traduzione italiana del testo della canzone che inaugura il nuovo album, Happens to the Heart, meravigliosa ballata in pieno stile Leonard Cohen e uno dei vertici di tutto il disco. “Lavoravo sempre con rigore / ma non la chiamavo arte”, si legge. Proprio di recente Adam ha provato a raccontare il processo creativo del padre marcando le differenze con quello di Bob Dylan: “Dylan componeva meraviglie di getto, mio padre era l’opposto: creare un brano era come lavorare il marmo, impiegava tantissimo tempo e guardava tutti i dettagli”. Immaginiamo allora Leonard mentre fa il passaggio di consegne a Adam e gli affida il compito di far vivere le sue ultime canzoni su un album, la grande responsabilità che deve avere invaso il figlio quando si è messo a riascoltare le registrazioni vocali del padre, quando ha sfogliato le sue parole, i suoi quaderni, quei segni occulti dove appuntava di avere incontrato Gesù e letto Marx. Se come scriveva Baudelaire è una maledizione essere la madre di un poeta, non deve essere facile esserne il figlio: il poeta ti lancerà addosso stilettate del genere, “Siedo qui, da solo / il giorno di Natale / lo so, lo so / che non dovrebbe essere così / Ho provato a chiamare un po’ di persone / ma erano tutte fuori / & mi sono messo a pregare l’unico / che conti davvero” (da La fiamma).
Adam chiama a raccolta un po’ di gente per farsi aiutare a mettere insieme Thanks for the Dance: il musicista Javier Mas, che ha accompagnato Leonard sul palco negli ultimi otto anni di tour, e poi Richard Reed Parry degli Arcade Fire, Bryce Dessner dei The National, Dustin O’Halloran e Zac Rae; chiede di cantare a Damien Rice, Leslie Feist, e ai due cori Cantus Domus e Shaar Hashomayim; fa suonare l’arpa ebraica e la chitarra a Beck; si fa aiutare da Patrick Watson e Daniel Lanois per la produzione, e da Michael Chaves per curare la registrazione. Quello che ne viene fuori è una bellissima ultima danza in nove movimenti, un commiato che è come andare a ritroso e in avanti nel tempo.
“La mia chitarra si è alzata in piedi oggi
e mi è balzata tra le braccia perché suonassi”
Thanks for the Dance è l’addio di Leonard Cohen al mondo delle cose conosciute (e non), e anche a noi che lo ascoltiamo: l’addio alle danze, al colibrì, alle colline e alle notti di Santiago dove portava lei sul fiume; l’addio a Marianne, a Suzanne, e alla ragazza al bar. “Don’t use the phone. People are never ready to answer it. Use poetry”, scriveva Kerouac. Leonard Cohen ancora una volta ha usato la poesia per arrivare a toccarci, magicamente riapparso dall’oltremondo è entrato nelle nostre case con la sua voce facendo a meno di un banale apparecchio telefonico, risuonando dentro le casse – davvero avreste preferito l’incursione di una telefonata sentimentale al posto di tutto questo? È questo il suo modo di chiamarci all’ascolto, di dire toc-toc, io sono ancora qui per dire appena un addio, alla prossima, toccherà a tutti voi andarvene, intanto vi regalo qualche parola che vi servirà, un po’ di versi da leggere e quei “sei accordi” che sono capaci di scomodare l’incantesimo. “Sono invecchiato / in cento modi / ma giovane è il mio cuore” – per tutto il corso del disco sentirete rabbrividire una gioventù mai spenta nel cuore di Leonard Cohen. Ancora speranzosa. Un’ultima danza tra i postumi di Cohen, le sue parole, la sua eredità – e un ultimo grazie da parte nostra che siamo in ascolto.