Interviste

Sembrava bellezza, il braccio armato di Teresa Ciabatti

Si intitola Sembrava bellezza, è stato pubblicato da Mondadori lo scorso gennaio ed è indubbiamente uno dei migliori romanzi che leggerete quest’anno. L’ha scritto Teresa Ciabatti, che con La più amata – Mondadori 2017 – è arrivata seconda al premio Strega, ed è un meraviglioso esperimento letterario.

La Teresa protagonista combatte l’ineluttabile, alla vecchiaia che si avvicina non vuole arrendersi, e si dimena, lotta. È una donna che non si piace, odia il suo corpo, cerca l’approvazione degli uomini. Teresa è una donna in carne e ossa, prende vita e sulla pagina danza, volteggia, rotea. Si incazza, urla, soffre. Teresa è forte, debole, rabbiosa, spaventata, felice, depressa. Teresa si contraddice, e attraverso le sue contraddizioni fa sì che noi possiamo ritrovarci, chiarirci e perdonarci. Teresa è palpabile, è un essere umano che vive, respira, parla e ha tanto da dire, da raccontare.

Una scrittura graffiante, onesta, controllatissima. Una storia allucinata, di rabbia, rimorsi e paure. Una voce, quella di Teresa (la Teresa de La più amata, la Teresa che sputa, morde e strilla, la Teresa che tutti amano e che tutti odiano), inconfondibile. Il romanzo di Ciabatti è un viaggio perturbante di rara bellezza, un gioco di luci e ombre che incanta e abbacina, pregno di un desiderio nudo che strazia come il canto di un cigno e che appartiene a ognuno di noi. L’autrice indaga la giovinezza, la famiglia, i rapporti che salvano e che incatenano. Scava nell’animo di una generazione intera per poi scendere nelle sue profondità, armata di punteruolo, di coltello, di mannaia, e fare una strage. Ciabatti non ha paura di niente.


Teresa è tornata, l’hai riportata sulla carta. Perché?

Perché questo personaggio è una sorta di braccio armato. Sono una persona pacifica, evito gli scontri e i conflitti, mentre Teresa se li va a cercare. Ciò che non sono capace di fare io, lo fa lei.

Un esempio pratico?

Al liceo, ho fatto una gita in Grecia. Tra i compagni con cui sono partita c’era Lavinia, era chic, snob, bella. Il contrario di me, che ero complessatissima. Non scendevo dal pullman, stavo per i fatti miei, mangiavo da sola. Pensa, oggi i miei compagni non si ricordano neanche che ci fossi pure io: per loro non esistevo. Insomma, facciamo la gita, stiamo una settimana in Grecia e, una volta tornati, Lavinia ci invita a casa sua per guardare assieme le foto del viaggio. Io ci vado, era una merenda tra amici, una cosa semplice, ma a un certo punto Lavinia tra gli album ne prende pure uno che per lei era una sorta di “album del divertimento”, pieno di foto che secondo lei facevano ridere. Lo mostrava a tutti gli amici che le facevano visita e, ci dice, dopo la gita in Grecia l’aveva riempito di nuovi scatti. Ecco, l’album era pieno di foto che ritraevano me. Pagine e pagine di me in pose umilianti. Io che dormo, io con il doppio mento in bella mostra, io con la panza di fuori. Foto scattate di nascosto, ovviamente.

La tua reazione?

Le chiedo spiegazioni, ma lei, leggera, serena, mi risponde solo che è un gioco, giusto per farsi quattro risate. Io non ho il coraggio di dire niente, sono capace solo di starmene lì e basta, con gli altri ragazzi, l’album sul tavolinetto accanto a tè e biscotti. Una volta tornata a casa, chiusa in cameretta, piango.

Perché non parli?

Non ho quel tipo di carattere, non riesco a fronteggiare nessuno. E questa mia incapacità, mancanza di coraggio, ho deciso di ribaltarla sulla pagina. Per questo parlo di braccio armato, perché con Teresa io do le risposte che non ho dato, affronto le persone che non ho affrontato. Tant’è che Lavinia nel romanzo c’è, e c’è con il suo vero nome. Con i romanzi io reagisco a ciò che nella vita subisco.

Il desiderio è una delle colonne portanti del romanzo e della vita di Teresa. Desiderio di sparire, sparire come Emanuela Orlandi. Sparire per essere cercati? Per vivere nella bocca e nella testa degli altri, per diventare finalmente protagonista?

Questo doppio significato c’è. Sparire significa diventare l’assenza di qualcuno, vivere attraverso gli altri e la loro immaginazione. Ricordo che da ragazzina, nei panni di Emanuela Orlandi, mi ci mettevo spesso, immaginavo come sarebbe stato, che reazione avrebbero avuto tutti, se a sparire fossi stata io.

Quindi è desiderio di vivere attraverso gli altri.

Sì, vivere attraverso gli altri e nei pensieri delle persone che avevo attorno – e non solo. Ma era pure desiderio di sottrarre il corpo. Il corpo ce lo portiamo dietro come un martirio. Cambia continuamente, non solo in adolescenza ma pure nella mezza età e nella vecchiaia, e noi ci dobbiamo avere a che fare sempre, con lui e i suoi cambiamenti. Ogni giorno dobbiamo fare uno sforzo per conoscerci da zero, come fossimo persone nuove. E io ho sempre desiderato di poterlo sottrarre a me stessa.

Ricordi il primissimo episodio di conflitto tra te stessa e il tuo corpo?

A dodici anni ho iniziato a ingrassare e i primi traumi sono arrivati allora. Con quei primi cambiamenti del corpo c’erano alcune cose che non potevo più fare o che nel mio immaginario, a causa di quelle modificazioni, di quella grassezza, non mi erano più permesse. Non potevo più entrare nella stanzetta di mia nonna, ad esempio. Nonostante quello fosse il mio rifugio, il posto dove andavo per stare sola con i miei pensieri e per leggere, non ci sono più entrata dacché ho preso a ingrassare.

Non passavi dalla porta?

Non proprio. Era una camera piccola e la porta era altrettanto minuscola, parecchio stretta. Diventata grassa, avevo paura di non riuscire più passarci, attraverso quella porticina, così non ci ho più provato. E non perché proprio non ci sarei passata, ma perché temevo di non poterlo fare.

E da quel momento in poi?

Ho smesso di guardarmi allo specchio. Solo di faccia, niente corpo.

Hai sottratto il corpo. Ci sei riuscita.

Ho solo provato a farlo, in realtà, ma mi sono resa conto che il mondo non te lo permette. Mi tornava sempre davanti agli occhi, quel corpo cattivo. La mia ombra, ad esempio, mi spaventava da morire. La vedevo sul muro o per terra, e mi terrorizzava. Mi domandavo: ma cos’è questa cosa enorme? Non l’ho mai riconosciuta, la mia ombra, mi è sempre stata estranea.

Non solo in adolescenza, quindi?

Un giorno, con addosso i chili accumulati in gravidanza, stavo camminando per strada e davanti a me ho visto la mia ombra. Ricordo di essermi spaventata, di aver pensato ci fosse qualcuno dietro di me. È un mondo fatto di specchi e di riflessi, ed è un mondo che il tuo corpo non te lo lascia dimenticare.

C’è uno scontro tra vero e reale, secondo te? Questa faccenda dell’ombra mi pare che un po’ si basi anche su questo, sullo scontro tra vero e reale, e nel romanzo è molto presente.

Non si tratta di uno scontro, ma di due piani che corrono in parallelo. Prendi la memoria. Io credo che la memoria sia anche, forse soprattutto, una rielaborazione personale del nostro passato. E non credo si tratti di un conflitto, solo che per sopravvivere dobbiamo riadattare e riadattarci, darci sempre ruoli nuovi, e il passato dobbiamo modificarlo per forza.

Quindi per te verità e realtà non collidono, ma coesistono.

La realtà nuda e cruda è difficilissima da raggiungere. C’è sempre un’alterazione, una modificazione che operiamo sulla memoria per poterci fare andar bene il presente. Ho un fratello gemello, e i nostri ricordi d’infanzia non coincidono quasi mai. Pare che abbiamo vissuto vite diverse. Eppure, non solo condividevamo tutto, la stessa stanzetta fino ai nove anni, gli stessi giochi, gli stessi pochi amici, ma eravamo sempre assieme. È stata un’infanzia condivisa, la nostra. Nonostante questo, i nostri ricordi spesso non combaciano tra loro.

Teresa parla di vita trascorsa sotto il segno della rivalsa. È un sentimento che ti appartiene?

Per me è sempre stato un sentimento molto rapido, come una fiammata. Di certo è capitato che l’abbia sentita, la voglia di rivalsa, ma non è mai durata molto. A me passa velocemente, ecco, mentre Teresa, la mia protagonista, è proprio animata dal desiderio di rivalsa. Io sono abbastanza tranquilla, direi.

È sempre stato così?

Sì, ma se ora la trovo una virtù, in giovinezza mi rendo conto che non lo era. Da ragazzina non uscivo di casa, stavo sola nei fine settimana, non mi piaceva bere o andare a ballare. Mi trovavo meglio in camera mia. Ma la consapevolezza che mi stessi perdendo le esperienze che i miei coetanei vivevano quotidianamente mi macerava. La vita andava avanti, e io me la perdevo. Oggi sono ancora così e vivo serenamente, ma alla giovinezza non ero adatta.

Secondo te l’individuo non si adatta sia a sé stesso, quindi pure all’età, sia all’ambiente?

Evidentemente in giovinezza in me agivano delle pulsioni che andavano in contrasto con il resto. Io avevo la tendenza a sottrarmi. Questo conflitto tra natura e mondo di certo lo soffrivo, ma non riuscivo a essere altrimenti. Non mi sentivo neanche sbagliata, però, perché quando cercavo di tenere il passo con gli altri, d’inseguire la giovinezza, non ci riuscivo e stavo male, sbagliavo tutto.

Quindi nessuna trasgressione in giovinezza?

Mah, dovessi ripescare tra i ricordi, la cosa più trasgressiva che ho fatto non è stato niente di davvero folle. Forse la volta che sono andata di nascosto in discoteca.

Vuoi raccontarmi?

Avevo sedici anni, era estate e i miei coetanei andavano tutti in discoteca. Era un locale meraviglioso a Porto Santo Stefano, si chiamava Le streghe. Io, ovviamente, non c’ero mai andata. I miei di libertà non me ne lasciavano, per queste cose, ma il problema non si poneva neanche: a ballare non volevo andarci. Facevamo però una sorta di gioco di autorevolezza. Io mi lagnavo, piangevo, mi lamentavo perché in discoteca fingevo di volerci andare, e loro s’imponevano, mi dicevano di no. Liti, pianti, urla, di tutto. Erano solo delle messinscena, però, in ballo non c’era proprio niente. Un giorno decido di volerci andare, a Le streghe. Di volerci provare, a essere come le altre. E va tutto malissimo.

Chiamo un amico, gli chiedo di darmi un passaggio e gli dico di aspettarmi in macchina appena fuori dal cancello di casa. Aspetto che mio padre si addormenti, mi agghindo tutta e mi calo dalla finestra della mia camera. Scavalco il cornicione, mi aggrappo al davanzale e salto in giardino; fuga ridicola, tra l’altro: la mia stanza era al piano terra. Faccio il vialetto, raggiungo l’auto del mio amico e con lui vado finalmente in discoteca, trasgredisco alle regole, disubbidisco a me stessa e a mio padre.

Risultato? Un disastro. Passo tutta la serata in un angolino per i fatti miei. Non ballo, non bevo, non parlo con nessuno. Seduta su uno dei divanetti, l’unico libero era quello accanto ai bagni e di fronte a me passavano continuamente coppie che si baciavano, aspetto che la festa finisca. Vestita elegante, ferma e sola. Insomma, non succede niente per tutta la notte. Nessuno mi chiede di ballare, mi offre da bere, da fumare, nessuno mi droga, mi importuna, si interessa e me. Niente. Io lì dentro non esisto. Finisce la serata, sono le quattro del mattino, e torniamo. Arriviamo da me, il mio amico mi lascia e se ne va. Percorro la salita che dal cancello porta alla villa, e vedo tutte le luci accese. Tutte.

Panico. Penso: ora papà m’ammazza. Insomma, a casa non posso tornarci, così decido di scappare. E fuggo via. A piedi, di notte, da sola, scendo di nuovo in strada e vado. Ancora vestita elegante, sudata, con i capelli scarmigliati e in lacrime. Prendo per Porto Santo Stefano e cammino, da Orbetello sono tanti chilometri, ma non m’interessa, voglio fuggire. E quindi eccomi. Una sedicenne tutta sola che a notte fonda se la fa a piedi sul ciglio della strada. Le macchine passano e spassano, sono i ragazzi che dopo la serata di divertimenti stanno tornando a casa, ma nessuno si ferma. Ancora una volta, nessuno m’importuna, mi picchia, mi violenta, mi deruba, nessuno mi domanda se sia tutto okay, nessuno mi vede, si accorge di me. Anche su quella strada, io non esisto.

Arrivata da mia madre a Porto Santo Stefano, s’è quasi fatta l’alba. Scavalco il muretto della villa e, quando sto portando una gamba su, sento un rumore: mi si sono strappati i pantaloni. Uno squarcio enorme e proprio al centro, nell’interno coscia. Io ero già grassa, i pantaloni mi andavano molto stretti e il muretto non era bassissimo. Suono al citofono, mia madre viene ad aprire e si ritrova davanti sua figlia con i pantaloni strappati, in lacrime e sudata e spettinata e stanchissima. Pensa subito: l’hanno violentata. Ma no, non mi era successo niente. Come sempre, nessuno mi aveva vista.

Aldilà della trasgressione, aldilà della serata in discoteca vinta ai tuoi, la fuga, quei chilometri percorsi da sola e di notte, è stata pericolosa. Ti sarebbe potuto succede qualcosa di brutto.

Sì, ma tanto a me non succedeva mai niente. In quelle situazioni di pericolo mi ci tuffavo, volevo che mi capitasse qualcosa, volevo addosso l’attenzione di tutti, che gli altri mi vedessero, finalmente. E di cose del genere ne facevo di continuo.

Ci sono stati altri episodi come quello?

Nell’estate della maturità, mia madre mi mandò a Los Angeles da alcuni suoi amici. Un giorno, presa da una crisi, fuggo da casa loro, da casa di questi amici di famiglia. Forse a causa di una lite, ma non ne sono certa. Ad ogni modo, questa gente vive in un quartiere residenziale, in strada non c’è nessuno, ma dopo un po’, ancora una volta sola, sudata, scarmigliata, incontro degli operai che stanno rifacendo il manto stradale. Io piango, piango spesso in situazioni come questa, e nel mio inglese stentato chiedo loro di portarmi in centro, giù in città, dove trovare un ristorante o qualcosa di simile. Questi operai, un gruppo di cinque uomini, mi caricano nel loro furgone e, a lavori finiti, mi portano in centro. Senza chiedermi se mi sia capitato qualcosa, se abbia bisogno di aiuto, ma anche senza torcermi un capello, importunarmi. M’infilano nel furgone e mi portano in centro. Lì finisce la mia fuga. M’infilo in un ristorante, e poco dopo dico agli amici di mia madre dove sono.

Capisci? Pure quella è stata una situazione di pericolo. Quegli operai mica li conoscevo, e loro davanti avevano una ragazzina appena maggiorenne, sola. Avrebbero potuto farmi del male, ma niente. Pure quella volta non mi successe niente.

Quando provi a vivere, e lo fai in questo modo, quando hai questi slanci vitali ma non succede niente, tu persisti e alzi l’asticella. Io mi ci mettevo, in pericolo, ma ero trasparente. Ecco, tutto questo me lo riprendo sulla pagina. Sulla pagina ci sono delle conseguenze, Teresa risponde, alza la testa, si ribella. Sulla pagina succede quello che a me non succede. A un certo punto, tanto era il desiderio d’essere finalmente vista, mi sfiora l’idea di tentare il suicidio. Ero una ragazzina, ancora un’adolescente. Ho preso venticinque aspirine. Le ho ingoiate tutte, una ad una. Ci ho provato, a uccidermi. Le aspirine le ho ingoiate tutte. Ma niente. Ancora niente. Non avevo alcun rilievo esistenziale. Nessun ricasco, nessuna tragedia. Sulla pagina, invece, succede tutto. È l’alternativa alla vita che non è stata, quella.

Anche in questo romanzo indaghi la famiglia, ma se ne La più amata Teresa raccontava sé stessa attraverso gli occhi di una figlia, in Sembrava bellezza lo fai attraverso quelli di una madre. Teresa sua figlia la ama, ma non sa farlo. È una paura comune a tutti i genitori?

Penso che ogni genitore abbia paura di non saper amare i propri figli, di non riuscire ad amarli e a capirli, ma d’altra parte quello genitori – figli è uno dei rapporti più complicati che ci siano. Rapporto che io non ho risolto come figlia e che non ho risolto come madre, destinato a rimanere aperto.

Da figli, ci modifichiamo in contrasto ai genitori? Nel romanzo, Anita, la figlia di Teresa, a tratti parrebbe farlo.

In contrasto e in replica. Il movimento rispetto ai miei genitori era questo: un andirivieni. Mia madre era sempre vestita di grigio o nero. Aveva pochi vestiti, e tutti uguali. La cosa che m’infastidiva era che le madri delle altre erano fighissime, avevano gioielli, erano ben vestite ed eleganti, mentre la mia no. Allora litigavamo, le dicevo “comprati una pelliccia, dei gioielli, sistemati!”. Lei, cocciuta, non si arrendeva. E mi sembrava inadeguata, triste, mediocre. Andavo a casa delle mie amiche e negli armadi delle madri c’erano abiti incredibili, nel suo solo dei golfini che a fine stagione sostituiva con altri identici. Io il suo vestiario, il suo armadio, l’ho sempre detestato. Era la prova dell’inadeguatezza dell’intera famiglia. Oggi, però, se apro il mio trovo le stesse cose, gli stessi golfini.

Teresa vorrebbe fermare il tempo. Vorrebbe tornare indietro e pare combattere l’ineluttabile. Tu questa ineluttabilità la combatti come lei?

Assolutamente no. Io ho un marito e una figlia che adoro e con cui va tutto benissimo. Non litighiamo mai, niente scontri eclatanti con lacrime e urla. Sto invecchiando, e mi piace.

Qual è per te l’immagine della vecchiaia?

Per me è questa. Questa che sto vivendo adesso.

Ma la vecchiaia arriverà almeno tra trent’anni, dai.

Ma no, è che semplicemente mi auguro che niente cambi. Mi sento bene e penso che rimarrà tutto più o meno simile, con questo senso di quiete che a me appartiene molto, mentre ai miei personaggi no.

Rimorsi o rimpianti, finora?

Siamo sempre lì. Rimpianti non posso averne perché tutto ciò che non ho vissuto non l’ho perso, non me ne sono privata: non lo volevo e basta. Rimorsi no, ho agito poco. Che rimorsi vuoi che abbia?

Ultima domanda. La facciamo quindi, questa piscina?

Ma ormai che la facciamo a fare, scusa? La piscina, in fondo, l’ho avuta in tutti i romanzi. Che importa che nella vita non ce l’ho? A forza di tuffarmi e nuotare e fare capriole nelle piscine dei miei libri, ce l’ho avuta davvero, questa piscina, e ce l’ho avuta esattamente come la volevo io.