a cura di Simona Ciniglio
La Madonna che ti appare nel bel mezzo della finale degli Open di tennis in Australia, mentre oltre la rete c’è Serena Williams. A pensarci è la cosa più naturale del mondo in uno sport di palline lanciate a mo’ di comete a 200 km/h, dove se non si annuncia la nascita del salvatore c’è sempre una salvezza, per tutti, nel sapere che qualcuno alla fine vince. Vince per un po’, vince a lungo, stravince, combatte per ore sotto il sole assassino, urla, suda, ridisegna il limite, fallisce. Sparisce dalla scena al richiamo dell’indecifrabile.
La sua storia, la vita che non sai mai se è quella che vuoi anche quando l’hai scelta, nella prima pagina de Le sorelle misericordia di Marco Ciriello (Edizioni Spartaco, 2017) sta già tutta alle spalle di Laura Cammarata; di fronte: la malattia, l’inconoscibile. Sì, perché Laura sa che quell’apparizione di “solitudine abbagliante” le sta ordinando di lasciare il tennis e dedicarsi a sua sorella Cristiana: malata di Sla, atea, e per niente entusiasta di sospendere il riscatto morale indiretto; l’illusione di sfangarla, anche solo per procura, legata al successo di Laura e alla sua vitalità. Soprattutto, non se ciò avviene in nome di Dio.
“Non si sa mai quando hai giocato la tua ultima partita. Meno che mai, la tua migliore.” A maggiore fatica corrisponde maggiore soddisfazione, ma nella vita le didascalie non sono previste per nessuno, il costo in incertezza è sempre elevatissimo. Laura monta sulla sua scala per il paradiso con sulle spalle una recalcitrante Cristiana: “Dio non esiste, e se esiste non mi piace”.
Da Cristopher Hitchens, cui il libro è dedicato, a Massimo Troisi, passando per Simone Weil: Marco Ciriello articola gli scontri verbali tra le due mettendo in campo una varietà sempre avvertita di riferimenti e registri in un continuum di rabbia pietas ironia e tenerezza. Laura declina la colpa in espiazione e riconduce al proprio successo -che immagina mal gestito secondo le divine aspettative- l’origine della malattia della sorella. Nel farlo usa la speranza come un crimine e l’amore come arma prescelta. Per Cristiana, destinata a guardare la vita dal fondo del proprio corpo, imprigionata come genio in una bottiglia, il talento della sorella, così come la sua bellezza, sono uno spreco imperdonabile sulla vana strada verso un Dio assente.
La malattia è quasi un luogo fisico, un paese ignoto: domicilio non richiesto dove non esistono vocabolari. “La malattia non riduce le distanze, ma modifica il linguaggio. Il dolore era stato un compromesso per farsi meno male e un tentativo-vano-di capirsi”.
La scelta di Laura: coltivare il proprio talento a costo di grandi sacrifici, per poi abbandonarlo a un passo dal successo – in ambo i casi inseguendo l’estrema rinuncia, l’abnegazione e l’infelicità inflitte in prospettiva salvifica dal cristianesimo ai suoi fedeli – rende il tennis uno degli innumerevoli predicati di Dio. La volontà personale annientata dal disegno divino pone il successo sportivo alle spalle di Laura: non è previsto che l’io si faccia Dio. Quest’ultimo aspetto che emerge dalla lettura de Le sorelle misericordia apre a un’interessante rilettura di due classici, ormai, della letteratura di argomento tennistico.
In Roger Federer come esperienza religiosa di David Foster Wallace manca la dimensione umana del tennista: è forse questo il prezzo altissimo a cui allude l’autore, per raggiungere l’armonia squisita di fondere Mozart e Metallica. “Riconciliarsi con il fatto di avere un corpo” pone i movimenti di Federer oltre l’umano: non vi è cesura tra gioco e giocatore. Il tennis non è alle spalle dello svizzero come accade per Laura Cammarata, non gli è davanti, lui è già il tennis.
La spiegazione che l’autore di Infinite Jest dà del talento soprannaturale di Federer è soprattutto metafisica, ma non tralascia esercizio, tecnica, intelligenza, racchette e materiali. Nel riconoscere ed elencarne le doti c’è l’esperienza del tennista prima che scrittore dal lessico tentacolare. Ci regala infatti: “senso cinestetico”, a spiegare l’intuizione magica del corpo in grado di prevedere le traiettorie dei colpi dell’avversario, manipolato e irretito in strategie elaborate a velocità impensabili. Il momento Federer si attesta come “bloody-near religious experience”, una maledetta esperienza quasi religiosa, secondo la definizione di un autista delle navette per la stampa. Wallace la adotta volentieri, perché più difficile di sapere se Dio esiste, c’è solo trovare parole in cui tentare di confinarlo.
Ad alto tasso spirituale anche il tennis di Andre Agassi. Nelle pagine di Open il campo è descritto come un’ideale trincea: estensione fisica dell’irrisolvibile conflitto tra il richiamo del trionfo e l’attrazione per il fondo. Che non è solo il fondo campo, ma la zona oscuramente nemica, l’avamposto del nulla a pochi centimetri da una fascia imbevuta di sudore, dove paure e fantasmi del passato invocano a gran voce la sconfitta.
Ex ragazzino prodigio vessato dal padre tiranno, sempre munito di maniacale borsa di racchette e limiti al seguito, Agassi ha imparato in tenera età a respingere milioni di palline sputate dall’infernale macchina lancia palle di paterna ideazione, soprannominata con terrore infantile: il drago. Vive facendo ciò che più odia e il tennis gli sta davanti, è con lo stesso sport che combatte. Agassi è l’uomo che rifiuta di farsi Dio: il continuo rinnovarsi dei conflitti interiori tra ascese e disfatte ne determina la cifra tutta umana, da cui trarre vitalità e conoscenza.