Temples – Volcano

Kettering, in Inghilterra, ha poco più di cinquantamila abitanti. Quattro di questi, giovanissimi e capitanati dal carismatico James Edward Bagshaw, fisico esile e una capigliatura che lo fa sembrare un incrocio tra Tim Buckley e Marc Bolan, pubblicavano nel febbraio del 2014 il loro esordio a nome Temples. Sun Structures apparve fin da subito come un piccolo diamante (pazzo) nel panorama della musica internazionale, un album che guardava dritto alla psichedelia della fine degli anni sessanta sul versante british, influenzato, in particolare, dal misticismo indiano dei Beatles ma anche dalle atmosfere dei Pink Floyd e dall’immediatezza dei Kinks. Quel disco metteva in luce, fin da subito, il talento dei quattro ragazzi inglesi che si faceva apprezzare per un’incredibile capacità armonica che attraversava con pochi punti deboli l’intero lavoro. A distanza di tre anni, e moltissimi live in giro per il mondo, dove hanno dimostrato, a tutti gli effetti, di essere una solidissima e convincente rock’n’roll band, i Temples tornano con Volcano, uscito oggi per la Heavenly Records.

Il primo singolo, Certainty, uscito a settembre, appariva già il primo segnale, se non di una vera e propria svolta, di sicuro di un cambio di passo rispetto al primo disco. Dopo un attacco liquido di batteria, i synth di Adam Thomas Smith si prendevano infatti prepotentemente la scena. Le armonie, intatte e ancora sorprendenti, incontravano però inediti suoni anni ottanta; sul finale, Certainty si faceva, poi, improvvisamente cupa, cedendo rapidamente a un’atmosfera che ricordava gli esperimenti di Walter/Wendy Carlos al lavoro col suo moog per la colonna sonora di Arancia Meccanica. Oggi che è disponibile l’intero album resta forte e confermata la sensazione che il disco possa quasi funzionare come colonna sonora di un film immaginario ma ricco di sfumature, di colori, di acidi lisergici, richiamando alla memoria quella stagione irripetibile d’incontro tra la musica rock e il cinema.

I riferimenti psichedelici degli esordi sono ancora presenti ma l’orizzonte musicale si è ampliato vertiginosamente. Dei numi tutelari dell’esordio rimane inalterato l’approccio pop dei Beatles come le atmosfere dilatate e sospese dei Pink Floyd, mentre la scabrezza proto punk dei Kinks lascia spazio a un universo sonoro che dagli anni sessanta sembra spostarsi soprattutto nel decennio successivo, in particolare dentro il mondo del progressive ma anche al glam senza risparmiare puntatine occasionali agli anni ottanta.

(I want to be your) Mirror mescola sapientemente la delicatezza dei primi Genesis con linee di chitarra alla Steve Howe degli Yes. Oh The Saviour, che prende a pieno dal folk lisergico e glam, è un pezzo che deve tantissimo all’innocenza ambigua di un personaggio di culto come Marc Bolan. Born into the Sunset sembra immergersi nuovamente nell’universo sonoro della musica indiana ma attraverso una chiave diversa e più moderna (come la Brimful of Asha dei Cornershop che il trattamento di Norman Cook portò a uno strepitoso successo alla fine degli anni novanta) per poi sorprendere con un ritornello solare che, nei cori, richiama, con estrema evidenza, le armonie vocali dei Beach Boys. Se How would you like to go? risente dei Pink Floyd della coppia Waters/Gilmour, In my pocket, oltre al già citato Marc Bolan e ai suoi T-Rex, ricorda le filastrocche del Syd Barrett solista.

Open Air si fa apprezzare per ritmo e freschezza, Celebration, invece, come da titolo, alterna atmosfere floydiane a ritmi marziali. Mistery of Pop è un ottovolante magico capace di mescolare un suono space rock con le colonne sonore di Fiorenzo Carpi, il folk favolistico à la Canterbury Scene con le sigle dei cartoni giapponesi degli anni settanta fino al glam dei Queen dei primi anni. Roman Godlike Man parte come un pezzo hard rock d’antan per poi farsi profondamente beatlesiano. Chiude, infine, il disco Strange or Be Forgotten, l’altro pezzo molto eighties del disco che mette ancora una volta in luce la voce delicata del cantante.

Messa così sembrerebbe quasi che i Temples siano una sorta di cover band e invece tutto suona, dall’inizio alla fine, incredibilmente personale, convincente, ispirato e spregiudicato. Ancora più che nell’esordio, è impressionante il lavoro che c’è nella produzione del disco e quello fatto sugli arrangiamenti. Non c’è un solo suono che sia fuori posto, nulla appare gratuito o ridondante in un disco che trasuda musica “suonata” (molto bene, va sottolineato). Come in Sun Structures, colpisce la capacità armonica del disco che farà anche tanto vintage ma che è un vero piacere per le orecchie.

Con Volcano, la band regala cinquanta minuti di leggerezza pop-rock senza per questo apparire superficiale. L’apertura ai suoni degli anni ottanta non stride con le sonorità pregresse dei quattro, grazie a un inserimento perfetto dentro la compattissima tessitura armonica, riuscendo, in tal modo, a tenere fuori l’aspetto più robotico e impersonale dei sintetizzatori. Grazie, ancora, a una freschezza e una passione, palpabili in ogni pezzo, i Temples riescono ad evitare anche il rischio di un disco che suoni troppo nostalgico. Volcano finisce così con l’essere il fratello più allegro dell’ultimo disco dei Flaming Lips: tutto ciò che nel lavoro di Wayne Coyne sembrava implodere dentro a un baratro di raccoglimento, qui sembra esplodere con gioia ed entusiasmo. Volcano finisce così con l’essere davvero un magma ribollente di riferimenti, suoni, atmosfere e stili, tenuti insieme grazie a notevoli abilità musicali, che fluisce dai decenni passati fino ai giorni nostri con assoluta e spontanea fluidità.

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