Quali e quanti mondi ha attraversato la costellazione di Apparat? Siamo finiti per osservarlo dappertutto in stato di semi adorazione, travolti dall’ipnotismo, a volte dalla fama o al trasporto, dalle salette sudate dell’underground berlinese, lo abbiamo seguito lungo i festeggiamenti per la caduta del muro quando era la techno a riunificare la sua Germania, in posti così piccoli ma infinitamente ingigantiti dalle sue strutture sonore. Lo abbiamo trovato nei teatri, negli auditorium, da solo, con orchestre, in compagnia di due ragazzacci a incendiare un centro sociale. Parlando di Sascha Ring, l’ex-giovane favoloso che è cresciuto sotto i nostri occhi trasformandosi in un interprete totale che non nega mai la sua passione per lo scherzo neoclassico, si finisce inevitabilmente per chiedersi quanto possa spingere ancora, se è davvero finita l’epoca dei club per inaugurare quella dei teatri. Se, in fondo, LP5 non sia lo spettacolo definitivo a cui assistere non più in piedi, non più con braccia e fianchi, ma per un piacere di stampo intellettuale. Prospettive, quindi, di chi deve tenersi fermo, di chi si muove sulle sedute del Teatro Regio di Parma, addobbato a club per una notte soltanto.
Barezzi Festival accoglie Apparat nel suo impianto più storico, in un mondo fatto di volumi perfetti dal gusto barocco che per una sera diventa il tempio elettronico in cui viene liberato un moderno spirito wagneriano. Non c’è manierismo che non sia indirizzato a una celebrazione dell’impeto, dell’ipnosi che si tramuta in forza e gesto collettivo. Sul palco, insieme a lui, la truppa di polistrumentisti sentimentali che lo avvolgono come una équipe chirurgica, spacciando armonie come si farebbe con bisturi e tampone. Decisione e delicatezza sono i minimi termini necessari a comprendere il sogno traslucido a cui assistiamo. Le mani forti che interrompono il ritmo per sincoparlo nell’istante successivo e ripartire dalla rottura per far rinascere i colpi techno – gli unici – portati da In Gravitas. O il riverbero dentro l’arpeggio di mandolino elettrico, archetipo ricorrente nell’ultima uscita, che rende il buio di un gusto squisitamente leggero senza perdere, in senso di teatralità drammatica, il suo valore titanico.
Puro Sturm und drang, tempesta e impeto che si scatena sui pedali e sui pad, non più semplici produttori di distorsioni ma veri e propri strumenti suonati in maniera quasi primordiale, giocando sulle profondità di struttura ed effetti. Alterità, quella naturale che sonorizza la pioggia di Means of Entry, quella drone di Laminar Flow, fino ai suoni d’organo che solennemente disegnano l’atmosfera e la riportano in una scena del Don Giovanni, di nuovo a casa, di nuovo nel tempo bloccato di una sala teatrale.
Si arriva oltre, quindi, nel racconto del viaggio, attraverso un tessuto sentimentale che non riusciamo più a identificare, che acquista una magia quasi sacra, eppure lui, composto, fra le luci dei neon, si lascia andare in pochi attimi a una conversazione col pubblico, prima di ritornare in una compostezza timida pronta a perdersi di nuovo in un raptus. Dove lo abbiamo trovato Apparat, come lo rivediamo, nei luoghi più perduti, forse maturo, forse libero dagli strappi di Krieg und Fieden quanto di The Devil’s Walk, definitivamente – forse – indirizzato verso il proprio modulo sonoro senza paure, che interpreta a modo suo un contemporaneo smarrito, ampio, in cui la voce, modificata, diventa un canto di sirena a cui si può credere oppure – in alternativa – continuare a guardare.
Le prospettive di Apparat non si risolvono in uno sguardo o in un ascolto, quelle del Barezzi risplendono in un luogo, per tanti motivi, magico di per sé.