Foto a cura di Michela Sellitto
C’è un perno intorno al quale ruota l’intero concerto del Teatro degli Orrori a Napoli alla Casa della Musica dello scorso 30 Ottobre. Quel perno è Slint, decima traccia dell’album omonimo uscito il 2 ottobre per la Tempesta Dischi. Chi tra il pubblico aveva ascoltato il nuovo disco (ed erano in tanti a cantare i testi dei nuovi pezzi che hanno occupato per intero la prima ora di concerto) sapeva già dell’importanza del brano nell’intero disco e, probabilmente, nell’intera produzione dell’ormai sestetto dato che alla formazione storica si sono aggiunti in maniera stabile, dopo la collaborazione live a partire dal 2012, il secondo chitarrista Marcello Batelli (Non voglio che Clara) e il tastierista Kole Laca (2pigeons); importanza sottolineata non solo dallo stravolgimento della scaletta da disco a live che vede chiudere la prima parte proprio con Slint ma anche dall’ampia presentazione con cui Capovilla, mai avaro di parole, la introduce. Slint è insieme una poesia malinconica sulle ferite della malattia mentale (a volte non so perché mi viene voglia di tornare a Sant’Erasmo a salutare i cormorani neri che si tuffano a pescare e incuranti di me…) e un atto d’accusa contro i TSO, trattamenti sanitari obbligatori, che Capovilla non esita a definire come una specie di sequestro di persona legalizzata invitando il pubblico a prendere parte alla campagna di sensibilizzazione per l’abolizione della contenzione fino a spingersi a descrivere questo paese come il vero teatro degli orrori. Slint, ricorda, è anche il nome del gruppo che ha cambiato la vita a lui e agli altri componenti della band, cita l’ultimo disco del quartetto di Louisville, quello Spiderland che nel 1991 la vita l’ha cambiata anche a tutti quelli che hanno avuto la pazienza e il piacere di ascoltarlo. Ma Slint è anche parola gergale che descrive il sottilissimo raggio di sole che penetra per una fessura. Ecco allora chiara la chiave dell’intera opera del TDO e in definitiva della poetica di Capovilla: in un mondo dominato dalle tenebre e dall’oscurità, c’è, non soltanto la possibilità ma, soprattutto, il dovere di fare luce nella sua doppia accezione di porre l’attenzione sui drammi e le storture di un paese, di un sistema politico e della società che rappresenta e, nello stesso tempo, di dare calore, attraverso quella luce, riscoprendo valori, emozioni sentimenti e punti fermi da cui (ri)partire. E’ un concetto che già prima era venuto fuori con forza grazie ad una versione tiratissima di Bellissima; con ama la gente, odia le persone Capovilla ci ricorda che, sì, la gente fa schifo ma le persone no a patto, però, che si abbia la voglia di conoscerle davvero, di scoprirle fino in fondo, se si è capaci di un’indagine analitica dentro l’altro. È questo che Capovilla rivendica, il recupero di un ruolo critico capace però di calarsi corpo, voce e anima dentro l’orrore di ciò che più ci sta a cuore.
Slint parte con i sussurri dell’intera band come un’invocazione a voci sommesse; è un atto liturgico e come ogni liturgia che si rispetti è una richiesta di pietà e misericordia. Dura pochi secondi e arriva l’esplosione, il TDO è sempre stata un live act band, oggi lo è ancora di più, dopo un’ora è evidente che le dinamiche del nuovo disco dal vivo sono ancora più estreme: Capovilla è un predicatore sghembo che poggia le sue liriche su un muro di suono impressionante, la sezione ritmica è come sempre granitica, Favero e Valente sono i fabbri di una fucina incandescente, Mirai e Batelli si congiungono agli altri nei coinvolgenti “assieme” che investono il pubblico con rinnovata forza, Laca, alle diavolerie elettroniche, non si perde in superflui orpelli e quando, alla fine del pezzo, accenna a Washer fa correre più di un brivido nella sala. È musica materica quella del TDO, si ha la sensazione quasi fisica di averla addosso, è un fluido che continuamente si solidifica e si liquefa, ha i colori cupi del nero, del sangue rappreso, è acciaio tagliente che porta con sé il ricordo del fuoco della forgiatura. Il suono non ha nulla di etereo qui, è materia fisica da plasmare.
È l’apice di una prima ora che non ha dato il tempo di tirare il fiato, l’inizio è un gigantesco pugno nello stomaco a cui il pubblico risponde con un incessante pogo, i pezzi più pesanti dell’ultimo lavoro uno dopo l’altro: Disinteressati e Indifferenti, La Paura, Cazzotti e Suppliche. Tocca poi all’attacco frontale ai farmaci contro i disturbi psicologici di Benzodiazepina (e all’incapacità di chi è intorno al malato di capirne il dramma personale). Più avanti è Il Lungo Sonno (Lettera aperta al Partito Democratico) a infiammare il pubblico e a riportare la scelta politica al centro di un concerto rock. È evidente una naturale evoluzione del suono del gruppo: a una potenza maggiore corrisponde anche un nuovo e maggiore controllo e una sempre maggiore consapevolezza nei propri mezzi; la furia teatrale di Capovilla è sostenuta da linee più precise che in passato, il linguaggio, anche musicale, si fa più diretto e più asciutto rispetto ai baccanali ebbri degli esordi.
La seconda parte si apre dopo pochi minuti di pausa. S’inizia con Non vedo l’ora, unico pezzo da Il Mondo Nuovo. Si sente adesso un affiatamento più rodato (siamo ancora alle primissime date del nuovo tour), aumenta la partecipazione della fetta di pubblico più fredda nei confronti del nuovo disco. È Il turbamento della gelosia che anche fisicamente sul palco segna un passo diverso: lì dove nella prima parte la band era disposta a semicerchio e a distanza dall’istrionico officiante ecco che basso e chitarre si chiudono intorno al cantante come un unico corpo. Tornano anche i pezzi di A Sangue Freddo, Majakovskij è il climax della seconda parte, è la canzone perfetta per Capovilla ma la stanchezza si fa sentire, la voce si fa rotta, qualcuno dal pubblico fa fatica a rispettare il silenzio che Capovilla vorrebbe prima del grido finale (se io fossi silenzioso…). Non è il momento più bello del set ma è uno dei più intensi; Capovilla è sul palco nella sua totale e disarmante onestà, è, se possibile una risposta ad alcune critiche piovute in queste settimane, critiche superficiali di chi non conosce l’uomo: la predica, l’impegno civile, il credo politico, sociale e poetico, la sua forza, tutto immerso in uno spirito naïf che non ha vergogna di mostrarsi così com’è, che è capace di credere ancora, di avere ancora una visione che il liberismo, la fine della guerra fredda, la globalizzazione non riescono a cancellare. Ecce homo, verrebbe da dire, quando, dopo l’ultimo urlo che spezza il silenzio, un Capovilla, talmente sincero da apparire vulnerabile, grida, con un sorriso o un ghigno per la sfrontatezza dello spettatore solitario e indisciplinato, vorrei il silenzio ma sarò disposto a tutto perché tu possa sempre rifiutarti e continuare a gridare. Non c’è un secondo solo in cui si risparmi, non c’è attimo in cui il calcolo prevalga sull’immediatezza dell’atto, costi quel che costi: arriva l’urlo, finalmente (… come il tuono) ed è growl puro, una violenza abrasiva dentro ad una bolgia di volume, sete e sudore. Compagna Teresa, Vita mia e A Sangue Freddo scaldano ancora il pubblico conducendolo verso il finale con La canzone di Tom, che tutti cantano come un mantra con cui accomiatarsi, è l’invocazione a chi non c’è, al tempo che ci abbandona, alle cose che fuggono via. Dopo più di due ore c’è ancora tempo per la presentazione della band, ed è uno spettacolo a sé, Valente picchia durissimo, Capovilla ringrazia tutti dai fonici al pubblico, verso il quale sono andati spesso i suoi applausi, ai suoi compagni di viaggio, e se stesso: Pierpaolo Capovilla, ai sussurri e alle grida.