Sono cresciuto con il punk e l’hardcore, lavoro nella comunicazione da sempre eppure mi ci è voluto un video di Andrew Shulz ed un articolo del Time per “rendermi uno swiftie”.
Maschio, etero, boomer, refrattario al pop, ho compiuto un passo al di fuori della mia comfort zone ed ora cerco di persuadere amici e sommelier musicali sul semplice fatto, per me oggettivo, che vede Taylor Swift come il più grande fenomeno musicale della storia contemporanea.
In realtà poco o nulla mi frega di Taylor Swift di per sé. Ma da persona curiosa e “dentro certe cose” non posso far finta di niente.
All’epoca non erano bastate amiche Millennials e stagiste Gen Z a convincermi del fatto che Taylor Swift non fosse (più) l’ex biondina country, simpatica all’alt right. Mi ci sono voluti dei transfert più vicini al mio spicciolo mondo maschile per compiere lo “Swift shift” e a farmi cambiare idea.
Potrei tediarvi per ore nell’argomentare perché dovremmo tutti pacificamente prendere atto della grandezza di Taylor Swift, elencando record, descrivendo evoluzioni artistiche e spiegando come la sua figura abbia cambiato tutto, nell’industria discografica, nell’event management e nella comunicazione. Ma non è questo il punto di questo pezzo.
L’intenzione è invece quella di capire, senza ipocrisie e infingimenti, il funzionamento delle nostre adesioni identitarie che guidano i nostri gusti, atteggiamenti e preconcetti. E al contempo riconoscere la nostra cronica incapacità di comprendere (e di accettare) la complessità del reale.
Ma torniamo un attimo su Taylor Swift. Quando ne parlo per evangelizzare amiche e amici, ma soprattutto per amor di polemica, mi trovo davanti più o meno alle stesse osservazioni.
«Ma che cavolo dici? Più di Michael Jackson? Più di Beyoncè / Lady Gaga / Justin Bieber / Dua Lipa / Ed Sheeran / Britney?»
Oppure: «Taylor Swift la più grande? Da che pulpito!».
Sì, lo so. Fa sorridere anche me il fatto di dover perorare la causa. Ma alla fine occorre fare i conti con l’onestà intellettuale. Taylor Swift supera tutti gli artisti in circolazione e polverizza i record di oggi e di ieri: i numeri sono sotto gli occhi di tutti. Certo, non ci si può basare solo sui numeri. E infatti Taylor Swift è un fenomeno globale soprattutto perché va molto al di là della musica. Perché è riuscita a rappresentare lo spirito del tempo (liberale, sensibile, progressita). E ha creato un legame senza pari con la fanbase più grande e fedele di tutto il pianeta. That’s it.
«Ma va, anche i Guns N’ Roses facevano bagni di folla».
«Anche ai tempi delle Spice Girls c’era il girl power». Blablabla.
E anche il mio compagno delle medie ripetente si era ossigenato i capelli perché l’aveva fatto Billie Joe Armstrong. Ma no cari amici, è cambiato tutto dai tempi del legend rock, delle Spice Girls o di Dookie. L’impatto e la capillarità dei nuovi media, per quantità e profondità, non è nemmeno paragonabile a quella di Mtv o di Top of the Pop.
Occorre ammettere che ciò che rappresenta oggi Taylor Swift, le cose che ha fatto e i risultati che finora ha ottenuto, con i suoi album, i suoi tour, i suoi statement, hanno la stessa portata di quello che ai loro tempi hanno avuto i Beatles, i Pink Floyd, Jacko o Kurt Cobain. È quella roba lì: storica ed epocale.
A questo punto, quando me ne esco con queste punchline, solitamente si viene quasi alle mani 🙂
Rolling Stone ha provato a spiegare il successo di Taylor Swift a Demon Albarn in 10 punti. Anche Il Post, con il solito stile “spiegato bene”, assieme a Wired, Forbes, El Pais, Le Figaro, hanno aggiunto la loro ad una foltissima letteratura, che in tutti questi anni ha provato ad analizzare il fenomeno. Eppure è tutto raccontato da lei medesima in Miss Americana, su Netflix. Basta ascoltarla.
Allora apprenderemo che Taylor Swift è diva e anti diva. Friendly, accogliente e relatable. Songwriter autentica, inclusiva e veramente impegnata. È un modello positivo di indipendenza e dedizione, professionista assoluta, pop star semplice e carismatica, in grado di raccontarsi e raccontare una nuova generazione. Una cantautrice e allo stesso tempo performer instancabile che non ha mai tradito i propri fan, ai quali dà tutto. E loro ricambiano con un tasso di fedeltà e di engagement disumano.
E quando le dicono che sarà sulla copertina del Time come persona dell’anno – prima di lei ricordiamo personaggi come Elvis, Madonna, Bob Dylan, Churchill, Kennedy etc etc… – la prima cosa che dice è se può fare una foto con il proprio gatto.
Time Magazine: We’d like to name you Person of the Yea-
Me: Can I bring my cat. https://t.co/SOhkYKSTwG
— Taylor Swift (@taylorswift13) December 6, 2023
Lascia perdere che i miei (o i vostri) riferimenti culturali sono molti diversi. Perché ciò non toglie che Taylor Swift sia unica, iconica, ispirazionale, generazionale. È una fabbrica globale di empowerment. E questo aspetto è talmente grande da rendere irrilevante il nostro giudizio sui suoi brani. Perché la sua capacità generativa di contenuti (lascia stare la forma che prendono, che agli occhi di un maschio quasi quarantenne possono ovviamente sembrare distanti) è fuori dal comune.
Non si tratta più di gusti musicali o di semplice ammirazione. Taylor Swift ispira, come rappresentazione più cristallina “della parte giusta del mondo” (ah, non è la tua? sticazzi). Dà senso alle esistenze altrui. Motiva intere generazioni. Accompagna la loro crescita. Non è la “goddess” Beyoncé da venerare con reverenza. Taylor Swift è al contempo “sister”, “queen”, “bestie” e meme, da amare con riconoscenza. Le swiftie sono lei e sono sempre con lei. La formula è pazzesca. Processo di immedesimazione + volontà di emulazione + transfert emotivo + costruzione valoriale di una community + routine digitale quotidiana, che amplifica un genuino senso di appartenenza, h24, 7 su 7.
Taylor Swift è una delle cose non religiose più vicine alla religione che esistano. I tour e i mega eventi sono liturgie laiche di massa. E sì, tutto l’ambaradan è anche un grandissimo affare (tanto da muovere il PIL delle nazioni che ospitano i suoi tour).
Taylor Swift è il world building di milioni e milioni e milioni di ragazzin*. La giga star che concorre a creare la loro personalità, la loro lente attraverso cui intendono occupare il mondo, il loro specchio identitario su cui amano confrontarsi. Ed è questo che va riconosciuto al netto di tutta la pigrizia che possiamo avere nell’ammettere una verità che magari non ci sta in tasca.
Se non sono riuscito a persuadervi, ma siete ancora curiosi di farvi un’opinione, potreste sempre farvi un giro su Reddit, o dare un occhio a quanto dicono sul tema l’Università di Boston, Harvard Gazette, Wikipedia, New York Times, Business Insider o questa testata giornalistica hindu.
Ma al di là della narrazione della grandeur di Taylor Swift, vorrei che non si perdesse il dato iniziale. E cioè la liberatoria evasione dal nostro recinto di pregiudizi, che ci porta ad accettare il reale fuori da sé. Scelta che ci fa empatizzare con storie diverse, semplici e potenti, come quella della bambina che è riuscita a realizzare il proprio sogno, quello di partecipare ad un live della sua beniamina dopo un’estate passata a vendere limonate.
Lo so, rischio passare per paraculo patetico nel giocarmi una carta simile, ma sarei meno sincero nel dire che un simile episodio non mi sfiori.
Non potrò mai sapere cosa prova la bambina del video, ma non posso che emozionarmi per le emozioni che lei prova in quel momento. E questa roba qui non può succedere se non si fa lo sforzo di comprendere il prossimo e di far esercizio di umana empatia.
Non fosse stato per Taylor Swift, non mi sarei portato a casa una lezione fondamentale. Se anche pensi di sapere una pagina in più del libro o di avere un quadro d’insieme completo di ciò che ti circonda, ti può sempre sfuggire qualcosa di tanto grosso, eclatante e storico senza che tu nemmeno te ne accorga. Rendersene conto è utile. Perché ti rende umile e ti riporta con i piedi per terra.
Riuscire a stupirci (ancora) di qualcosa di totalmente alieno rispetto alla propria cultura non è poi così male. Consiglio anche a voi di essere più esotici che esoterici.