Letture da spiaggia in una Calabria inaspettata, tra Marocco e Inghilterra: Tangerinn di Emanuela Anechoum

Quando Tangeri era una città di respiro internazionale, tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta, c’era un locale chiamato Tangerinn, molto amato da artisti e scrittori e frequentato, tra gli altri, dai poeti beat americani: Burroughs, Kerouac, Ginsberg, Bowles. C’è poi un altro locale che si chiama Tangerinn, un baretto sulla spiaggia frequentato dalla comunità multiculturale di un villaggio calabro poco lontano da Reggio Calabria. Esiste nella finzione letteraria descritta da Emanuela Anechoum nel suo romanzo d’esordio per l’editore e/o, che si chiama appunto Tangerinn. Intorno a questo baretto ruotano le vicende di Mina e della sua famiglia, protagonisti del racconto, che prendono le mosse dalla morte del padre Omar. Partendo da un paesetto remoto della Calabria, Anechoum ci racconta una storia di chi fugge e chi resta intensa quanto gli illustri precedenti a cui l’editore ci ha abituato, vestendo da narrazione familiare una vicenda di ritorni e nuove partenze dedicata alla difficile ricerca dell’identità che si snoda tra Italia, Marocco e Inghilterra: il presente, il passato, forse il futuro.

Quando qualche settimana fa mi sono trovato seduto a chiacchierare con Anechoum durante una manifestazione letteraria a Torino, non sapevo niente di lei, se non che avesse scritto un libro che ha questo titolo e la copertina arancione. Era difficile non notarlo tra gli scaffali della mia libreria di quartiere, e mi aveva fatto giustamente pensare ai mandarini, che in inglese si chiamano tangerine e d’altra parte appaiono anche sulla copertina. Il titolo è già di suo intrigante, giocando su diversi ambiti e richiamando molteplici significati. Ero tornato da poco in Italia, con l’intenzione di fermarmici per un po’ dopo tre anni di pellegrinazioni tra paesi e continenti lontani. Sono bastate un paio di occhiate e uno scambio rapido di battute di fronte a un caffè – le avevo chiesto qual caffè è legittimo bere in Italia alle cinque del pomeriggio senza passare per un turista, mi aveva risposto io prendo uno shakerato – per capire che parlavamo la stessa lingua, come è accaduto con altri autori di cui ho scritto negli ultimi anni. Le mie diaspore sono state spesso punteggiate da questi momenti di ritorno, contrassegnati da incontri con libri e scrittori altrettanto irrequieti con cui ho instaurato rapidamente un’affinità di spirito. La letteratura italiana è attraversata da un respiro transnazionale che emerge di frequente dalle narrazioni giovanili, come ho descritto in vari contesti, a partire dai suoi più grandi e più remoti classici. La storia di Anechoum è spostata di qualche anno più avanti rispetto al consueto coming-of-age, in un momento in cui si fanno i conti e si cerca di capire cosa si è diventati.

 

In apertura del suo bel libro, Anechoum indica subito qual è la sua affiliazione citando un brano di Elsa Morante da L’isola di Arturo, dedicato alle persone che hanno “due sangui” nelle vene e perciò sono animati dal compresente desiderio di essere qui e là senza trovare “riposo nè contentezza”: “mentre sono la, vorrebbero trovarsi qua, e appena tornati qua, subito hanno voglia di scappar via”. Un manifesto per ogni “animale doppio” in cui si riconosce un proprio simile – neanche a farlo apposta, a neanche tre mesi da questo incontro scrivo queste righe da Berlino.

Ma al di qua della storia importante che Anechoum racconta, c’è qualcosa di magmatico e salmastro che emerge dalla sua scrittura limpida e levigata che la consacra immediatamente come una delle voci più piacevoli da ascoltare, tra quelle italiane emerse negli ultimi anni, e la inserisce di diritto in una mappa di Londra in cui convivono le narrazioni di autrici quali Claudia Durastanti, Olga Campofreda, Viola di Grado. Anche Anechoum fa parte degli italiani che hanno popolato la capitale britannica e ne hanno descritto in italiano l’esperienza. Nei casi precedenti abbiamo esplorato Londra con un piede, rispettivamente, tra Roma e Basilicata, Catania e Torino, Caserta. La cosa originale di Anechoum è che lei è diventata una expat londinese portando con sè oltre al background calabrese, di suo piuttosto poco esplorato letterariamente, quello addizionale che la collega a un sud leggermente più a sud: dal suo libro emerge un costante dialogo con il padre appena defunto, un tu con cui la voce narrante dialoga durante la descrizione di immagini di molteplici passati, emigrato dal Marocco e stabilitosi in un paese della costa calabra, sposando una donna del posto.

Un aspetto che colpisce di Anechoum è la capacità di descrivere questa eredità marocchina da un punto di vista radicato nella generazione italiana del presente, una seconda generazione rispetto al paese di emigrazione dei genitori, ma animata dal medesimo desiderio di fuggire all’estero per poter realizzare ambizioni che non trovano sfogo nel proprio paese. Un punto di vista dunque in cui si sovrappongono due desideri di fuga e due traiettorie di migrazione.

Emanuela Anechoum, foto Dario Nicoletti

La molteplice migrazione di Anechoum contribuisce a rendere complicata la mappa delle diaspore contemporanee, in cui numerose direzioni di emigrazione e immigrazione si sovrappongono in un’identità fuggevole che emerge dalla narrazione in un momento di passaggio, pronta a riprendere il volo. Credo sia questa la cosa più preziosa e più unica del lavoro di Anechoum: la capacità di aver fissato sulla pagina questo momento che passa veloce – quello in cui torna a visitare la Calabria per spargere in mare le ceneri del padre appena defunto – e averlo dilatato in oltre duecento pagine di prosa, moltiplicando questo momento per tutte le storie che la sua vicenda ha avvicinato: l’infanzia paterna e la sua esperienza a Tangeri, l’esperienza della madre italiana, la presenza della nonna, il confronto con la sorella che indossando l’hijab e decindo di farsi carico del locale gestito da Omar le pone davanti scelte radicalmente opposte. Intorno a loro emergono le voci contrapposte dei personaggi che animano il Tangerinn calabro e quelle che hanno animato le giornate londinesi di mina, su tutte quelle della supponente padrona di casa Liz, una tipologia di attivista locale con cui chiunque abbia vissuto in Inghilterra si è trovato a confrontarsi vestendo i panni dell’immigrato che si scontra col privilegio. Tutto si incastra armoniosamente in un coro modulato dalla voce dell’autrice.

Quando mi hanno presentato ad Anechoum, non avevo idea che fosse marocchina, nè calabrese, nè glie l’ho chiesto, perché negli ambienti anglofoni che frequento questo tipo di informazioni sono diventate un tabù da evitare al primo incontro. L’ho scoperto solo molte settimane dopo, quando ho letto il suo libro. Tangerinn ha il merito di aver introdotto nella letteratura italiana queste due voci che si sono ascoltate entrambe poco, due esperienze di mediterraneità e di meridionalità che appaiono marginalmente ma sono molto presenti nella storia della Torino multiculturale in cui ho vissuto negli ultimi anni, fin dalla fondazione dello stato italiano. Perciò sono stato contento di averla incontrata proprio a Torino, che presenta una comunità marocchina molto vivace nei quartieri dove si concentra l’immigrazione nordafricana. Il Marocco magico definito dalla musica e dal té alla menta nel libro emerge costantemente attraversando tra i quartieri di Aurora e di Barriera, aggiungendo alla città colori che non le appartengono e mostrandoci un’Italia arricchita dalle sue molteplici voci che ancora a fatica emerge dai libri che possiamo trovare in una libreria.

Ma in Anechoum c’è tanto di più, a partire dalla presenza del mare, che sentiamo in sottofondo nei dialoghi tra Mina e Aisha sedute sugli scogli, fino a percepirne l’odore. Nella sua scrittura capace di dialogare con qualsiasi anima inquieta, emerge magistralmente anche il confronto con la gentrificazione urban delle grandi città con cui Mina si confronta a Londra, da cui emerge uno spirito di solidarietà intersezionale che la avvicina agli altri personaggi marginali raccolti nel suo bar, una comunità che vive a margine del primo mondo come spesso accade in Calabria, sospesa in un’attesa che si fa spesso ritorno. Ma anche nel contesto delle narrazioni di ritorno Anechoum è capace di distinguersi, descrivendo una figura paterna che si dissolve con discrezione lasciando in primo piano un mondo popolato da donne indimenticabili le cui giornate sono scandite dalla presenza dell’Islam che non diventa mai invasiva o opprimente, una dimensione gentile che circonda i personaggi di racconti e pillole di saggezza, per esempio quando ci suggerisce che la felicità sostanzialmente appartiene a chi si accontenta. E che forse, noi facciamo parte di una categoria a cui non darà mai dato di essere pienamente felice.

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