Report a cura di Pier Iaquinta
“Come with me, And you’ll be, In a world of pure imagination, Take a look, And you’ll see, Into your imagination”
Così cantava Gene Wilder nei panni del folle Willy Wonka, nel film Willy Wonka e la Fabbrica di Cioccolato del 1971. Credo sia più o meno l’effetto che si prova appena varcati i controlli all’ingresso dello Sziget Festival, dove si prospetta un mondo così fantastico e fittizio rispetto a ciò che si può trovare all’esterno, nel mondo reale. Io, come Charlie Bucket: lo sfortunatissimo ragazzino protagonista del film, ho ricevuto il mio golden ticket per L’Indiependente, così da poter gustare tutte le variazioni possibili (- non di caramelle) musicali sull’isola. Purtroppo, non ci sono fiumi e cascate di cioccolato, nonostante a tratti il Danubio somigli a qualcosa del genere. Questa è stata la 26esima edizione del Festival, che quest’anno ha avuto il record di affluenze. Hanno partecipato infatti 565 mila persone, assistendo ad una mole di oltre mille concerti di artisti provenienti da circa 63 paesi diversi: qualcosa di enorme. Potenzialmente si può ascoltare qualsiasi genere musicale esistente nell’arco di una settimana, grazie al numero di palchi presenti e alla vastissima selezione che offre l’organizzazione. Nonostante la grassa offerta a livello musicale però, è noto quasi a tutti che la musica non è il centro – ma solamente il pretesto per ritrovarsi accampati su un isolotto a vivere il delirio di una libertà apparentemente sconfinata.
Io, cercando di mantenere un’ortodossia che mai come in questo caso credo di aver posseduto, ho cercato di non cadere in trappole turistiche come la serata al finto beach-bar con tanto di tormentoni e macarene; il giro allo sky-bar da cui si può vedere tutta l’isola; la caccia ai timbrini da apporre sul passaporto da Szitizen (“cittadino dello Sziget”) per ottenere un “regalo speciale”; o i giri sulle giostre da lunapark per cifre esorbitanti; senza dimenticare i banchetti dove versavano annacquatissimi cocktails in un secchiello da un litro. Tutti elementi carinissimi per carità, ma di inevitabile distrazione. L’obiettivo era seguire la line up cercando di non mancare agli appuntamenti più interessanti. L’essenza del festival è quella di creare la giornata nel modo più libero possibile, con l’organizzazione che si impegna costantemente a rendere pari a zero ogni intoppo. Mangiando quando si vuole e quanto male si vuole, dormendo quando non si dovrebbe o non dormendo quando si vorrebbe, programmando un’esperienza unica e diversa da quella altrui, specialmente se si viaggia da soli. Si fa chiamare Island of Freedom e un motivo c’è: potresti addirittura saltare tutti i concerti e comunque divertirti. Ragion per cui il centro reale potrebbe non diventare la musica, ma semplicemente partecipare. Esserci è sicuramente un bene posizionale: essere lì in quel momento ha già valore di per sé. Che tu sia del settore della moda, nel campo del marketing o che tu voglia semplicemente divertirti facendo qualcosa di “alternativo”, ti ritrovi al centro del mondo più brillante e catchy possibile per una settimana. L’aspetto che mi ha impressionato di più di questa mia permanenza è proprio la ricerca di questo tipo di narrazione: quella dell’essere nel posto giusto al momento giusto, ostentando uno straordinario, uno stravagante che è figlio di quella che è una libertà apparente derivata dalla suggestione collettiva.
Il tema di quest’anno era la Love Revolution, una tematica ovviamente importante e impossibile da non condividere, ma che comunque fa tendenza, nel senso che si presta ad essere un hashtag ideale: politico il giusto e perfetto per creare un’identità all’utente dello Sziget. Oltre a questo erano stampati ovunque messaggi di fratellanza, unità tra popoli e slogan ecologisti, con tanto di stand che in cambio di spazzatura e residui, regalavano Wi-Fi. Oltre a divertirti, pensi di essere dalla parte giusta, di fare del bene e “lottare per una causa”: un meccanismo che stimola sicuramente la produzione di endorfine e ancora una volta crea una sorta di identità. Non si tratta ovviamente di una critica a questo genere messaggi, perché è chiaro che se questo diventa un fenomeno sociale oltre che social, è solo un bene. Ecco, se non si fosse capito lo Sziget di fricchettone e hippy ha solo l’atmosfera tutta peace and love, il lavoro del comparto marketing in realtà è avanguardistico. La lista degli sponsor e dei partner commerciali è sconfinata, e non a caso tra i maggiori figura Mastercard. Certo: è spartano, si suda e c’è polvere, ma Sziget è un colosso nel mercato, portando profitti e ricavi inimmaginabili prima di tutto a se stesso e agli sponsor, infine alla città di Budapest, che è perfettamente attrezzata e abituata ad assorbire un’orda così imponente di persone.
I Volti
I giovani ma anche giovanissimi sono i protagonisti dello Sziget: si nota nella scelta degli headliner (tra cui figurano Shawn Mendes, Dua Lipa e Lana del Rey che sono veri e propri teen idols). La maggioranza fa parte di quella generazione nata nei ’90 o poco dopo: generazione figlia della globalizzazione ruggente, apertamente europeista e cresciuta nel mito del Coachella. Quella delle ragazze con i fiori in testa e gli abitini sgargianti, la generazione che ha reso instagram il social network di tendenza – e tutto allo Sziget è perfetto da instagrammare. Essendo un’isola felice tuttavia, non manca la presenza di numerose famiglie con tanto di bimbetti a seguito: e questi ragazzetti sono davvero divertenti perché scorrazzano nella polvere indossando grosse cuffie anti-rumore e probabilmente non rendendosi conto di nulla. Un aspetto tanto positivo è che si tratta davvero di un festival per tutti e alla portata di tutti (senza barriere architettoniche per esempio) in cui si tende ad essere gentili e scambiarsi sorrisi e sguardi d’intesa.
Il leitmotiv del festival è quel sentimento di “presa bene” che deriva dalla musica stessa, dalla giovinezza della stragrande maggioranza del pubblico e la disinibizione che vien fuori dal campeggiare, condividendo bagni e docce fredde per un tempo così lungo. Per questa ragione si stringono un numero infinito di “amicizie” e si può piacevolmente scherzare con tutti quelli che si incontrano. Si è fisicamente provati a tal punto da far cadere tutti i pregiudizi e le diffidenze personali, fino a essere in confidenza con tutti quelli che ti stanno intorno.
L’isola
Ci sono 13 palchi sparsi per l’isola di Obuda, senza contare il tendone del Cirque du Sizget, dove si esibiscono acrobati, giocolieri, clown e circensi da tutto il mondo. Ognuno propone una selezione diversa di artisti e generi. Si può scegliere di seguire quel che più si gradisce, avendo la possibilità di ascoltare qualsiasi genere musicale possibile. Oltre ai due principali, il Dan Panaitescu Main Stage e il Mastercard Stage by A38, c’era il World Music Stage: il palco più colorito e particolare dove ho avuto il piacere di ascoltare musica balcanica, ebraica, sudamericana e i nostrani del Canzoniere Grecanico Salentino, per me una rivelazione. Vicino c’era l’Afro Latin Reggae Village, dove si danzava al ritmo di differenti tipologie di tamburi a qualsiasi ora del giorno e della notte; e poi ancora lo Europe Stage dove si esibivano i migliori artisti emergenti europei e qui chiunque calcasse la scena è riuscito a racimolare un capanello di connazionali con cui sfogare tutto il proprio orgoglio di potersi mostrare al resto del mondo (un rapper turco si è fatto passare un liquore tipico dal pubblico, ed è qui che con Willie Peyote e Motta abbiamo festeggiato tutta la nostra italianità all’estero); e ancora, a partire dal tardo pomeriggio fino al mattino era attivo anche il Telekom Colosseum, un enorme anfiteatro fatto di bancali in legno dove si sono alternati nomi importanti della techouse e della techno in ogni sua diversa forma; e il tendone tutto dedicato all’EDM: la Bacardi Arena; più un palco dove veniva suonata solo musica ungherese, il Volt e un piccolo palco, il Lighstage dove si sono esibiti tantissimi nuovi artisti italiani.
Non è stato tralasciato alcun dettaglio, dalla decorazione dei bagni con opere d’arte contemporanea alle sdraio giganti sulla “spiaggia”: c’è anche una sorta di lido dove poter abbronzarsi e rilassarsi con un bagnetto nel secondo fiume d’Europa per lunghezza. Ho visto opere d’arte magnifiche create con i rifiuti, mangiato i piatti più unti di tutta l’Ungheria e visitato il gigantesco supermercato fuori dall’isola – un’appendice del festival, visti i servizi e la clientela.
Le conferme in musica
Tra gli artisti che hanno rispettato le mie aspettative ci sono sicuramente i Gorillaz: Damon Albarn è stato fantastico, sforando addirittura i tempi del concerto. Aveva già fatto emozionare solo con le prove mattutine, ma con luci, visual (in cui sono stati proiettati video e spezzoni della Cartoon band più famosa di sempre), costumi sgargianti e i numerosissimi interventi di rapper e altri collaboratori hanno creato uno show, che nonostante l’ampia discografia non ha lasciato l’amaro in bocca a nessuno (a parte DARE che non è stata suonata), chiudendo con l’evergreen Clint Eastwood e facendo esplodere l’applauso della quantità spropositata di presenti.
Altra conferma sono i Mumford and Sons, bravi e visibilmente emozionati per il calore del pubblico, hanno alternato brani nuovi e loro grandi classici. Su I Will Wait momento super toccante con pomiciate annesse di tutte le coppie intorno a me: mi hanno sbattuto in faccia la mia solitudine, ma tra una lacrimuccia e un’altra è stato sicuramente un bel live, belle scenografie e bravi loro a suonare e per essere così affettuosi. Emozionati (che significa meno distaccati del solito) gli Arctic Monkeys a cui è toccato il compito di chiudere il Main nell’ultima serata del festival. Hanno proposto una setlist più grassa del solito, con un Alex Turner rasato e in delirio che non è stato fermo un secondo dell’ora e quaranta di esibizione. Classico pogo su Brianstorm ed emozioni per tutti su 505.
Tra le conferme, ma leggermente sotto le aspettative, anche il premio Pulizter Kendrick Lamar, che ha spaccato, con un ritardo di quaranta minuti, rendendo insostenibile la calca di quasi 100mila persone che lo attendevano. Il palco è stato allestito come se ci trovassimo di fronte a una sorta di ring: lui da solo, band d’accompagnamento all’angolo. Qualcosa di potentissimo, una volta salito e dopo essersi giustamente scusato ha iniziato a muoversi come un pugile tra una rima e l’altra. Esordendo con DNA. credo sia ovvio l’effetto che ha immediatamente ottenuto sul pubblico, che non si è fermato nemmeno un secondo. Ma come puoi fermarti un attimo con una carrellata di brani come King Kunta, Swimming Pools, goosebumps (di Travis Scott) uno dopo l’altro. Pulitzer Kenny – così si fa chiamare ora – non smette mai di rappare, non un attimo di fiato o di tregua; unisce anche diversi brani tra loro in unico flusso, portando il pubblico a saltare e spintonarsi fino allo stremo. Menzione particolare per la versione strumentale di YAH. eseguita alla perfezione dalla band, esplosa poi nel finale di HUMBLE. con una serie di soli. (Ne approfitto anche per ringraziare l’amico australiano che mi ha fatto salire sulle sue spalle per vedere qualcosa in più e fare qualche video).
Un’altra conferma è stato il rapper londinese Stormzy, che con il suo grime è riuscito ad aprire il moshpit più grande a cui abbia partecipato. Tra le conferme inserisco i Kooks, che sono stati adorabili e hanno chiuso ovviamente con Naive; i Milky Chance, che nonostante l’assenza della parte elettronica per un problema logistico, hanno fatto bene, definendosi una “cover band acustica di loro stessi”; e i Nothing But Thieves, perfetti nell’esecuzione dei loro pezzi: hanno anche provato ad impressionare il pubblico, scomodando i Led Zeppelin con una cover di Immigrant Song. Voce e batteria speciali.
Molto toccante anche l’israeliano Asaf Avidan, a me noto solo per One Day ma che ha indubbiamente una bella voce. Confermatissimi anche i Gogol Bordello, il cui mood balcanico-piratesco ha fatto divertire tutti quanti, rispettando le aspettative, concludendo con un solo di violino del “Professor” e una doccia di vino rosso caldo del leader Eugene Hütz. Chiudo parlando di Nick Murphy aka Chet Faker, bravo ed elegante. Un’intro spettacolare con luci blu soffuse e tanto fumo, hanno reso l’atmosfera eterea e fuori dal tempo, trascinando tutti con sé. Iperattivo si è spostato in continuazione tra i vari strumenti, ho adorato il bassista che non si è mai fermato legando benissimo tutto lo spettacolo che però è stato più breve del previsto.
Sorprese
Le sorprese sono stati tutti coloro che hanno superato aspettative e pronostici. Primi tra tutti Unknown Mortal Orchestra, con il loro soft rock psichedelico. Sono rimasto colpito dai virtuosismi di chitarra del frontman Ruban Nielson, che nel delirio generale è salito sulla torretta del fonico al Mastercard Stage. Un live leggero e piacevole, splendida l’esecuzione di Not In Love We’re Just High. Sempre sulla stessa linea i Whomadewho, compagine danese che unisce elementi rock con diversi loop elettronici, alternando momenti chill a picchi di carica. Tre personaggi assurdi, in tunica che sorseggiavano spumante dalla bottiglia tra una canzone e l’altra. Molto bene anche Rhye con la sua voce bellissima e malinconica e i Little Dragon che hanno proposto il meglio del loro ultimo album.
Bravi e interessanti i Kaleo, una band giovane direttamente dall’Islanda che suona blues rock d’altri tempi creando un forte effetto di straniamento derivante dal modo in cui si presentano (giovani e brillanti) e da cosa suonano, effetto che vale anche per il pubblico che cantava le loro canzoni. Divertenti Shame e Living End: i primi giovani, inglesi e apertamente punk si sono scatenati e hanno fatto ballare il pubblico; i secondi australiani, fatti di un’altra pasta, un trio formato da cantante/chitarrista, batteria e un contrabbasso folle, è salito più volte sullo strumento suonando dall’alto, quasi fino a farsi sanguinare le dita, hanno addirittura azzardato una cover degli AC/DC spacciandola per una canzone folk australiana. Tra le sorprese inserisco gli Slaves, mio personale concerto preferito, solo in due sul palco a suonare l’hardcore punk più crudo possibile, calciando con il piede il piatto della batteria e facendo salire un gruppetto di presunti ballerini sul palco a fare la “doggy dance”. Sotto il palco un moshpit violento e convulso, interrotto dal bagno di folla del cantante Laurie Vincent che ha scagliato un’invettiva contro l’alta finanza e le leggi di mercato, potente quanto ironica in un evento del genere.
Due live imperdibili sono stati quei folli dei King Gizzard and Lizard Wizard e i sublimi The War On Drugs, visti anche al TOday Festival di Torino. Due concerti molto diversi che sentivo avrebbero offerto qualcosa in più rispetto agli altri. I King Gizzard sono stati qualcosa di assurdo, Stu e compagni hanno suonato senza fermarsi una selezione scelta tra i 5 album che hanno pubblicato nel 2017. Fermi immobili, inondati di luci colorate, con alcuni ventilatori che rendevano tutto più epico, mentre sotto il palco si creava un pogo selvaggio, con personaggi scalzi e capriole. La performance di The War On Drugs è stata qualcosa di un livello superiore, ringrazio la pioggia che non ha fatto notare le mie lacrime su Pain. Perfetti.
Per quanto riguarda le voci femminili è stato amore a primo ascolto con Lianne La Havas, la voce più soave dello Sziget 2018. Cantante che poi ha addirittura duettato con Marcus Mumford sulle note di Awake My Soul. Un altro highlight è stata la performance di Wolf Alice, dove la cantante Ellie Rowsell ha dato il meglio di sé, gettandosi anche tra le braccia della folla in un abbraccio collettivo. Bravissima anche Aurora, che ha messo in piedi uno spettacolo strano quanto coinvolgente, accompagnato dalla sua voce e dal suo stile indubbiamente New Age.
Delusioni
Classifico come delusioni quei live dai quali mi aspettavo molto di più o che non mi sono piaciuti per svariati motivi. Mi tocca inserire ahimè anche due nomi grossi, Lana del Rey e Dua Lipa. Entrambe bellissime e dannate. La prima ha cantato con un filo di voce, creando un delirio semplicemente per la sua presenza e – mettici il fatto che non sono un grande fan, mi ha un po’ deluso. Mi aspettavo davvero qualcosa in più. Il livello di idolatria era tale che mentre si allestiva il palco è stata acclamato anche l’ingresso di una semplice pianta parte della scenografia.
Dua Lipa popstar e stella di instagramper la quale si sono sprecati paragoni, secondo i più maliziosi pare abbia cantato in playback; personalmente mi ha deluso anche la performance che mi aspettavo più colorata e magniloquente. Nulla a che vedere con MØ, popstar di un livello nettamente superiore, autrice di basi e testi delle sue canzoni. Tralascio il discorso Shawn Mendez che “purtroppo” mi sono perso ma che non mi appartiene assolutamente, per parlare di Desiigner: il trapper, famoso per Panda, non ha assolutamente rappato limitandosi a fare il vocalist.
Ed è con queste piccole delusioni che concludo il racconto di qualcosa di unico e particolare nel suo genere come può essere uno Sziget. Un festival protagonista di se stesso, dove tutto gira intorno ad un’idea che viene magistralmente messa in pratica: un microuniverso a parte che si materializza solo in agosto, una frenesia dove si è pienamente liberi, nonostante l’onnipresente ma discreta sicurezza posta a custodire questa pace artificiale. Ringrazio mia madre per non essere stata una NoVax all’epoca, perché probabilmente non sarei sopravvissuto senza vaccinazioni.
Tutte le foto sono di Alise Blandini