Swans – To Be Kind

È la seconda volta che mi si chiede di recensire un album degli Swans, la prima volta circa due anni fa a ridosso della pubblicazione di The Seer. Un lavoro duro per un’opera complessa, mi hanno detto. Ovviamente rifiutai: io? gli Swans? ma scherziamo? me la faccio sotto solo a sentirli nominare. Quella notte ho sognato lo spirito di Gira che con il suo solito tono smorto e profetico da mummia disseppellita e risvegliata mi diceva: “Giovanni, devi morire male”. E se adesso mi sono ritrovato invischiato nella recensione di To Be Kind è solo colpa tua, Michael. Ti voglio bene comunque.

Un punto di partenza potrebbe essere questo: siamo di fronte ad un disco che difficilmente riusciremo a tradurre dal linguaggio della musica al linguaggio delle parole. In questi termini non mi stupisce affatto che una band con una discografia tale abbia messo in crisi parecchi giornalisti del settore. Come dire, mi meraviglierei ben poco se un domani il quotidiano titolasse “morto suicida. Sotto il braccio la monografia incompleta di un noto gruppo musicale”, ecco, ché se non s’è ammazzato per il gravoso impegno, l’ha fatto per tematiche e sonorità tutt’altro che leggere. To Be Kind in questo non si differenzia dai vecchi lavori. Viene allora riproposta la stessa formula già sperimentata nel 2012, spesso portata ad estreme conseguenze. Teatrale, eccessivo, esagerato. Preferisco definirlo “grottesco”, emanazione di un intelletto che non ha ancora esaurito la creatività originaria – sessantanni e non sentirli. La varietà con cui si propone allo spettatore: ritmi asciutti ed ossessivi guidati da ipnotiche linee di basso danno il cambio a densissime e familiari nubi di chitarre distorte. La stessa struttura si ripete nella prima traccia (“Screen Shot”) come nella monumentale “Bring The Sun/Toussaint L’Ouverture”. “Some Things We Do” desertifica. Il testo di questa cinica e mortuaria cantilena ci rivela “cos’è che facciamo”, l’arrangiamento è costruito invece come se volesse suggerirci “come” realmente lo facciamo. Ed è così che si chiude il primo disco. Meglio fare una pausa – mi dico. Metto su un caffè, prendo un po’ d’aria fresca ché ho il fantasma della recensione di The Seer che mi sta addosso. E a queste cose sono particolarmente sensibile – ai fantasmi, intendo.

C’è una cosa che ho dimenticato di dirvi e che mi viene in mente solo ora che ascolto “She Loves Us”: io odio il prog rock. Dov’è che voglio arrivare, vi chiederete. Di certo non a farmi linciare pubblicamente su una piazza virtuale. Allora, a me sembra che gli Swans siano riusciti a purificare – o “distillare”, se preferite – un genere morto sul nascere. Edulcorato in modo da garantire la buona riuscita commerciale del prodotto, abbellito da elementi che alludono continuamente alla vita intesa come caos e alienazione, alla totalizzante esperienza del nulla, emanazione di una follia autentica e primitiva. Un substrato di perversione che non si sa dov’è che vuole andare a parare, cos’è che vuole – “Oxygen”: la voce di Gira è quella di un potente sciamano dei tempi moderni, sovrasta gli strumenti e li guida verso dove non si sa. Ed è proprio la poetica del perdere, cercare, perdersi e cercarsi che ha fatto la fortuna degli ultimi Swans, forti di rumorose e suggestive esibizioni live che li hanno resi popolari e nel contempo fascinosi, stimati da un ampio pubblico variegato, fra vecchi e giovani, dagli ex metallari emancipati agli ascoltatori più esigenti.

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