Proverò a scrivere questa recensione senza mai nominare Paolo Sorrentino e Almost Famous, perché Mark Kozelek non è una comparsa da film ma uno straordinario compositore dal forsennato ritmo di uscite. Attivo dai primi Novanta con i Red House Painters, si è guadagnato le copertine e un’attenzione mediatica meno outsider e più patinata solo con Benji del 2014. In parte ha aiutato quella sua vena provocatoria e polemica, quel caratteraccio da yankee dell’Ohio, che fa pendant con quel modo di vomitare parole dentro i pezzi come un poeta che ha le sue illuminazioni a ogni angolo di strada. Qualcuno dirà che roba come ”The War On Drugs Can Suck My Cock” non sia certo un capolavoro rimbaudiano di jamming poetica ma solo il ruggito stanco di un rapper agé, ma entriamo nell’ordine personale di idee di che cos’è la poesia, e se sia ancora possibile. Come provocatoriamente si chiedeva Eugenio Montale a proposito della poesia nella nuova era dell’esibizionismo globale (e neanche era arrivato a vedere i social network): ‘‘In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?”.
Mark Kozelek viene dall’intimismo slowcore, è un vecchio duro capace di creare atmosfere soffuse e testi meravigliosi e graffianti. Negli anni Novanta, mentre la rivolta nichilista grunge compiva il suo delitto attraverso l’esplosione di una rabbia autentica, negli stati centrali della grande autostrada americana (Kentucky, Illinois) il disagio esistenziale si narrava su presupposti diversi: Slint, Codeine, e anche Low, si crogiolano in un sentimento che fa quasi da dolce culla al dolore. Lo slowcore dei Red House Painters si concretizza invece sulla costa occidentale, a San Francisco: nel 1992 esce l’album di debutto Down Colorful Hill, e l’anno dopo Red House Painters I. I testi e i brani sono tutti firmati Mark Kozelek, ed è subito chiara la genialità di questo oscuro tizio venuto dal nulla. Se confrontate la voce di allora di Mark, con quella che quasi rappa oggi sui brani lunghissimi a nome Sun Kil Moon, vi troverete faccia a faccia con l’effetto Bob Dylan: c’è una distanza di voci e di tempi, che si incarnano in ritmi e cadenze diverse che giocano a confonderci. Lo stesso gioco potete farlo con le mille voci registrate da Dylan (Nashville Skyline è tanto diverso da Blonde On Blonde quanto lo è Tempest). Di quel periodo di Kozelek restano capolavori immortali come Katy Song, che soffusamente racconta la storia di una separazione con toni così dolci da far sembrare ridicole tutte le accuse al pessimo carattere del cantautore. Diventa imbarazzante star dietro a tutte le critiche che riescono a pioverti addosso in questo mondo ultra-mediaticamente esposto, in un mondo che su Facebook vomita le opinioni peggiori. In questa nostra eterna ricerca di sprazzi di poesia, riconoscerla sarebbe già bello: ”I know tomorrow / You will be somewhere in London, living with someone / You’ve got some kind of family there to turn to / And that’s more than I could ever give you”.
Universal Theme pretende di essere già dal titolo quello che è: il canto dei temi universali umani. La poesia di Kozelek nel progetto Sun Kil Moon è diventata prosa, si staglia lunga e racconta, ha il ritmo di vecchi estratti che scavano la memoria ed entrano in brevi soffusi e incantanti scampoli di giornate. Piuttosto che seguire la messa con libretto a portata di mano, consigliamo un’escursione nel piccolo mondo del cantautore americano: la promessa è quella di almeno un brivido da pelle d’oca. La copertina si racconta già da sé: una cabina telefonica abbandonata nel mezzo dell’America, chissà dove, potrebbe essere qualsiasi posto del mondo. I cavi elettrici sullo sfondo sembrano quasi cadere, si reggono male, è una terra desolata, ed è nelle terre desolate che brancolano le migliori storie a questo mondo. Puoi vederci passare una ragazza italiana a cui regalare un mazzo di fiori, o improvvisamente ecco un opossum, e il ritorno a casa hemingwayano a K West, ”And I walked back to the K West with my guitar and got into my bed, called my girlfriend and fell asleep”. Semplice e diretto, lo stomaco è colpito senza grandi esagitazioni commerciali.
I racconti di Kozelek apparantemente sembrano sconnessi. Nell’ultima traccia, This Is My First Day And I’m Indian And I Work At A Gas Station, per esempio ci sono in sequenza: lui che vede La Grande Bellezza (ehnnò, ho detto che non parlerò di quel regista), è appena tornato dalla Finlandia, sta andando in Svizzera, ha una parte in un film, ma una sua amica sta male e lui vorrebbe tornare da lei per darle un po’ di sollievo, mangia in Belgio e ha un appuntamento dal dentista, poi si ricorda che la ragazza gli ha rotto il cellulare rifacendo il letto, ma si sentiva così in colpa che gliene ha comprato un altro, lui intanto legge un libro di John Connolly, arriva in Svizzera, e non sa che diavolo fare in questo maledetto film, si risveglia con la voce di Michael Caine nelle orecchie come Martin Sheen dentro Apocalypse Now (e intanto le chitarre dietro stanno suonando per voi). Vi siete persi? È così che fa la poesia: ruba immagini.