Sarà stato il Natale, o la carica di malinconia che ti mette dentro, perché quando si è insieme si sente più la mancanza delle cose che non ci sono più, o forse è soltanto quella definizione genetica, quella che ci passiamo di generazione in generazione, che ti fa valutare come tutto, prima, fosse migliore rispetto ad oggi. Di quando c’erano le feste di paese e per portare fuori le ragazze dovevi prima presentarti ai genitori o, semplicemente, la musica popolare era quello che, oggi, vorremmo identificare nella musica elettronica. Quel tempo in cui c’erano ancora le mezze stagioni e i giovani erano davvero quelli di una volta, e i sentimenti erano ancora veri, ma solo perché ci svalutiamo troppo, e al posto delle discoteche c’erano ancora le balere che, per chi è nato fra il Po e gli appennini, hanno inconsciamente un significato speciale. Forse perché di un tempo non troppo lontano, abbastanza per non averle vissute ma perché venissero raccontate, e dai contorni romantici, perché anche se non li hai mai visti ballare ti piace immaginare in una sala da ballo i primi appuntamenti dei tuoi nonni. Così, come accade spesso, quello che si sta perdendo assume un contorno di eternità, perché non puoi comprenderlo e ti pare immutabile, anche se la verità è un’altra, ed è quella secondo cui ciò che non senti più sta, inevitabilmente, scomparendo e, tu, puoi farci poco. Relegati ai canali provinciali e alle (poche) feste tradizionali sopravvissute, il popolo della balera vive ancora, lontano dai grandi schermi e dalle gare di revival, a ranghi ridotti, perché il tempo ha la sua parte, ma sempre vivi e felici. Un’immagine da Vacanze Romane, dai capelli grigi e dalle ossa stanche, ma che, come un bel film, non hanno perso il loro spolvero. Non sono più gli anni d’oro dei Casadei, che come un circo portava dalla Romagna all’Emilia i suoi spettacoli, ma le orchestre sono tutt’altro che scomparse. E ti sorprende vedere quanti ancora, nonostante tutto quello che è successo, siano sempre lì, immutabili e antistorici, vivendosi l’attimo come se il tempo non fosse mai passato, forse più ragazzi di noi.
Ci piace credere che non siano più i tempi delle grandi orchestre, e che il nostro presente sia più complicato e difficile e, per questo motivo, richieda espressioni culturali ricercate e sempre più individualizzanti, tali da farci distinguere uno dall’altro. Ma è una pretesa più grande di noi. Il passato non era, certo, più semplice, anche lì di problemi ce n’erano tanti, si trattava soltanto di un tempo più omogeneo, determinato da una scelta ridotta e da un gusto meno pretenzioso. E così il ballo liscio inglobava una componente generazionale, quella che noi non riusciamo più a trovare. Quello che, davvero, non sappiamo cosa significhi. E la televisione di mia nonna accesa il giorno di Natale su un programma che da oltre trent’anni trasmette soltanto quel genere di musica mi ha fatto sentire la nostalgia di tutto ciò che si sta perdendo. Sorpreso che, nell’epoca senza distanze, ci fosse qualcuno che telefonava in trasmissione soltanto per fare degli auguri o per richiedere una canzone della tradizione, o del giornalino dell’associazione partigiani in cui qualcuno non dimentica i compagni caduti (e gli ideali di allora) in una ventina di pagine dedicate al ricordo e agli scomparsi. O di vedere tanta gente, in quelle che non sono più le feste dell’unità, fare più tardi dei ragazzini dell’arena concerti, solo per un altro valzer, ancora. Questione di gesti semplici, o di una idea diversa della vita con gli altri, non senza colpe, perché noi ne siamo il risultato. La domanda, è se quando anche noi diventeremo abbastanza maturi per essere considerati vecchi, saremo ricordati così, e per cosa. Pensarci, probabilmente, è già un mezzo comprendere che non lo sarà. Il liscio è solo una punta dell’iceberg di quello che non abbiamo mai imparato, o non ci è stato insegnato abbastanza. Perché non è il tipo di musica, di letteratura o di arte, ma il modo in cui certe cose si esprimono e vengono concepite. Anche sessant’anni fa c’era la parte economica, in un paese ben più povero del nostro, e quella dell’affermazione. Mi piace credere, però, che non fosse la parte principale, com’è ora qui da noi, ma forse è soltanto una valutazione romantica, ma con qualche idea dobbiamo pur vivere.
Non saremo mai il popolo del liscio e nemmeno quello del surf, dei tirar tardi per un altro ballo, che è diverso da fare chiusura in discoteca, non saremo mai quelli della tradizione. Perché non siamo mai stati capaci di creare quello che una balera significa per noi, un posto che anche da vuoto ci fa saltare fuori un monte di ricordi, della pasta fatta a mano, delle storie sulla guerra, e di quella musica che non avremmo mai compreso. Forse perché le tradizioni non moriranno mai, e quello che stiamo perdendo non è il passato, ma la possibilità di costruirne uno, domani.