Suicidi imperfetti è il nuovo libro di Fabrizio Coscia, pubblicato dalla casa editrice napoletana Editoriale Scientifica. Un saggio narrativo che è un invito al viaggio letterario sulle tracce di figure suicide. Se nelle sue Tumbas, Cees Nooteboom portava il lettore a passeggio tra le tombe di poeti e pensatori, il libro di Coscia è una raccolta di brevi e intensi ritratti di artisti, scrittori, musicisti, poeti – donne e uomini straordinari che si sono sentiti subissati dal peso del problema filosofico più grande, il suicidio. Suicidi «imperfetti» perché nessun suicidio si compie in una perfezione d’intenti, e perché spesso il suicidio è un salto nel vuoto per scampare le fiamme.
Tra i suicidi imperfetti ci sono i ritratti di David Foster Wallace, Virginia Woolf, Nick Drake, Hart Crane, Jean Seberg, Mark Rothko, Marina Cvetaeva. Coscia dedica il suo libro ai suicidi eccellenti che non hanno trovato spazio nella raccolta, e dunque a Vitaliano Trevisan, Sergej Esenin, Sylvia Plath, Kurt Cobain, Violeta Parra, Stig Dagerman, e tutti gli altri esclusi ma virtualmente presenti. Perché un libro come questo è anche un’indagine sul legame tra l’opera d’arte e l’abisso di solitudine e sofferenza che abita l’opera.
Pubblichiamo un estratto da Suicidi imperfetti, il ritratto del poeta e filosofo tedesco Philipp Mainländer, morto suicida a 34 anni.
Suicidi imperfetti nasce come serie di ritratti letterari usciti in estate sulla rivista Pangea. Coscia ha ampliato gli scritti e aggiunto ritratti. Fabrizio Coscia è docente, editorialista e critico teatrale per «Il Mattino». Ha pubblicato saggi narrativi; dirige la collana S-confini; è autore di Nella notte il cane.
Philipp
«Se nessun napoletano vuol andarsene dalla sua città, se i poeti locali celebrano in grandiose iperboli l’incanto di questi siti, non si può fargliene carico, vi fossero anche due o tre Vesuvii nelle vicinanze» scriveva nel suo Viaggio in Italia, alla fine del Settecento, Johann Wolfgang Goethe. Settant’anni dopo arriva a Napoli un altro tedesco, molto meno famoso di Goethe, anzi quasi sconosciuto ancora oggi. Si chiama Philipp Batz, ma cambierà il suo cognome in Mainländer, in omaggio alla sua città natale, Offenbach am Mein, dove è nato nel 1841. Ha diciassette anni quando il padre lo spedisce in Italia, per un impiego in una banca commerciale di Napoli. Vi arriva il primo giugno 1858, e vi rimane cinque anni, gli anni che definirà i più felici della sua vita. Napoli segna il suo destino: la città lo conquista, lo affascina, lo seduce. Le gite in costiera gli ispirano versi entusiastici sull’alba a Sorrento. Qui scopre la letteratura italiana, ma soprattutto conosce il pensiero di Leopardi, che in città ha vissuto e vi è morto venti anni prima. Visita la tomba del poeta, a Mergellina, insieme a quella di Virgilio, tra le piante di alloro e gli alberi di oleandro. Si appassiona agli scritti leopardiani, che lo influenzeranno, soprattutto per quell’idea centrale che caratterizzerà gli sviluppi del suo pensiero: l’idea che «il non-essere è meglio che l’essere», a fondamento di quell’unica sua opera pubblicata nel 1876, Filosofia come redenzione.
Mainländer annota i pensieri dovunque gli capiti, su fogli sparsi, ritagli di buste, sulla carta intestata della banca, poi organizza gli appunti in paragrafi, segna a quale sezione sono destinati, proprio come Leopardi faceva con le sue «polizzine»: Fisica, Metafisica, Morale, Politica. Ma come arriva a farsi filosofo questo giovane rampollo di una famiglia borghese e agiata destinato a una carriera bancaria, appassionato di poesia? A Napoli, in una libreria del centro storico, un giorno Philipp sfoglia i libri appena arrivati da Lipsia e gli capita tra le mani Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer: è una rivelazione che determina la svolta della sua vita. Da Schopenhauer, dopo Leopardi, Mainländer sviluppa le basi della sua filosofia, la concezione di una vita essenzialmente infelice, divisa in quattro mali: il dolore della nascita, la malattia, la vecchiaia e la morte, senza contare la noia, il più subdolo dei mali, che subentra ogni volta che appaghiamo un desiderio. Ma Schopenhauer viene anche coraggiosamente rovesciato: il mondo ha origine dalla volontà di Dio di passare dall’essere al nulla. Se Dio è spinto dal desiderio di annichilirsi, il mondo intero e i suoi esseri viventi saranno la manifestazione di questa volontà di autoannullamento.
È la «volontà di morire», dunque, che permea tutta la materia dell’universo, innestatavi da un dio che ha pianificato il proprio suicidio fin dall’inizio, e lo ha realizzato nella frantumazione che è all’origine della Creazione. Mainländer prevede che un giorno anche gli esseri umani prenderanno coscienza di dover seguire l’esempio di Dio, poiché la volontà consapevole di morire deve soppiantare la volontà insensata di sopravvivere. Prima ciò avverrà e prima si compirà la necessaria autoestinzione del mondo. Nel suo sistema di pensiero, che Theodore Lessing ha definito «il più radicale sistema pessimistico noto in tutta la letteratura filosofica mondiale», il suicidio è dunque la naturale conclusione della vita, come redenzione dell’esistenza, sia per Dio che per gli uomini. Da qui, l’affermazione: «Dio è morto e la sua morte fu la vita del mondo», che Friedrich Nietzsche riprende da lui, rielaborandola a modo suo, pur definendo Mainländer il «dolciastro apostolo della verginità». Consacrato alla verginità Philipp lo è stato davvero, anche qui prendendo Leopardi a modello, della cui vita casta ha saputo leggendo Antonio Ranieri, una verginità praticata da Mainländer come comandamento proprio per favorire il movimento dell’umanità «dall’essere al non essere». Se il destino del mondo e dell’uomo conduce verso l’assoluto nulla, l’astensione dal sesso non è che un modo per anticipare questo processo.
Ritornato ad Offenbach nel 1863, Mainländer riprende, come lui stesso scrive, a vivere «come un prigioniero» nella sua casa, da cui esce raramente, se non per lavorare nelle aziende del padre. Ha nostalgia di Napoli, una nostalgia struggente. Il detto riportato da Goethe nel suo Viaggio in Italia gli risuona nella mente: «Vedi Napoli e poi muori!». Sente la sua anima unita «in tensione al golfo blu attraverso dorati fili magici». È un legame che non vuole recidere, anche perché, col passare del tempo, nel ricordo tende sempre più a idealizzare la città, associandola agli anni dell’apprendistato: «Tu, sacro sogno della mia giovinezza – scrive – devi rilucere puro e chiaro sino alla mia ultima ora, come sinora hai brillato nel luogo sacro della mia anima».
Nel marzo 1869 è assunto all’Istituto Bancario di J.M. Magnus a Berlino e intanto continua a studiare e a prendere appunti per la sua opera. Tre anni dopo si licenzia dalla banca, rompe con il padre, e torna a Offenbach, dove nei successivi anni si dedica totalmente alla scrittura, completando la sua Filosofia della Redenzione. Nella notte del primo aprile 1876, mette una sull’altra, a terra, le copie fresche di stampa della sua opera ricevute il giorno prima dall’editore, vi sale sopra e poi si lascia penzolare da una fune che ha appeso a una scaffalatura del tetto. Muore compiendo così la sua filosofia, consegnandosi all’oscurità, all’oblio, da cui lo trarrà fuori, quasi ottant’anni dopo, Jorge Luis Borges, che lo cita a margine di una nota in Altre inquisizioni: «Rileggendo questa nota – scrive Borges, dopo aver parlato di un’opera di John Donne, Biathanatos, un’apologia del suicidio che indica in Gesù il supremo suicida della storia – penso a quel tragico Philipp Batz, che nella storia della filosofia si chiama Philipp Mainländer. Fu, come me, lettore appassionato di Schopenhauer. Sotto il suo influsso (e forse sotto quello degli gnostici) immaginò che siamo frammenti di un Dio, che all’inizio dei tempi si distrusse, avido di non essere. La storia universale è l’oscura agonia di quei frammenti».
Da uno di quei frammenti agonizzanti, il pensiero di Philipp è giunto fino a noi, raggiungendo anche Emil Cioran, folgorato dallo «splendore che conferisce il suicidio» e Albert Caraco, il sulfureo scrittore franco-ungherese che avendo ribadito il proposito di suicidarsi dopo la morte dei suoi genitori amati e odiati (unica ragione che lo manteneva in vita), tenne fede alla decisione, impiccandosi anche lui con determinazione. Oggi, quell’idea della filosofia di Mainländer che l’umanità porti dentro di sé, piuttosto che un istinto di sopravvivenza, un istinto di autodistruzione, una vocazione a estinguersi, appare tremendamente attuale. E mentre in Germania la sua eredità si è accresciuta enormemente, tra epigoni e studiosi, Napoli, con sventata ingratitudine, non conserva di lui nessuna traccia o memoria.