La questione principale nel discorso critico intorno a Javelin, ultimo lavoro di Sufjan Stevens, riguarda il suo più o meno spiccato autobiografismo. Le dieci canzoni del disco, infatti, abbondano di memorie, invocazioni, dialoghi che si lasciano interpretare come frammenti di un diario intimo, con la conseguenza di identificare il lavoro come un seguito, o un’estensione di Carrie and Lowell, disco del 2015 in cui la figura centrale è la madre dell’autore, affetta da numerosi problemi di salute, con la quale Stevens intratteneva un rapporto conflittuale conclusosi con la morte di lei, nel 2012. L’associazione tra dramma familiare, perdita, lutto e creatività sembrerebbe lampante anche nel caso di Javelin: come annunciato in un post su Instagram contestuale all’uscita del disco infatti, Stevens ha subìto la scomparsa del suo compagno ad Aprile di quest’anno. Così dunque come Carrie and Lowell era dedicato alla madre, Javelin risuona e risente di un’altra figura amata e scomparsa di recente. Come scritto in apertura, la chiave interpretativa principale nelle recensioni di Javelin è la perdita: sotto questa luce sono stati inquadrati pezzi come Goodbye Evergreen, So you are Tired o Shit Talk, e il carico emotivo del disco è stato più volte sottolineato ed evidenziato, fino a far sentenziare un recensore che un disco così pieno di dolore non deve essere ascoltato per più di una volta per rispetto.
Sebbene sia inutile negare il legame indissolubile tra le canzoni del disco e i concetti di perdita, lutto, abbandono, questa ci sembra una chiave riduttiva. Javelin non è solo un disco, ma anche un booklet fotografico e una raccolta di dieci personal essays, tanti quanti le canzoni, che va ascoltato ma anche guardato, letto e decifrato. Confessioni e arrangiamenti, collages e ricordi, sonorizzazioni e filosofemi (sophistries in uno dei saggi) compongono una cosmologia del dolore, della morte e della rinascita, che contiene al suo interno richiami alla Bibbia (Sufjan è stato spesso, specie nel periodo di Carrie and Lowell, additato come autore cristiano, con suo sommo sgomento), a varie filosofie come il neoplatonismo, e in generale uno spiccato sentimento panteista. Javelin è sì una lamentazione in senso classico, ma non solo: può venire letto anche come un sistema autosufficiente in cui il lutto viene inglobato all’interno di riflessioni più generali sulla nascita, la morte, il mutamento, l’oblio, l’amore. Un sistema certo disorganico e caotico, sincretico e quasi new age, che si rispecchia nei collages del booklet e in alcune dichiarazioni contenute nei saggi stessi: “I was pandemonium personified”, la forte presenza di una componente universalizzante, metafisica, dove tutto, a malapena, si tiene.
Il titolo, intanto. Javelin, giavellotto. I titoli dei dieci saggi, se letti di seguito formano un’unica frase, my love is a weapon thrown into the oblivion of your body, ‘il mio amore è un’arma lanciata verso l’oblio del tuo corpo’. Il giavellotto è un’arma che nella Bibbia può assumere connotati diversi, se non antitetici. Nell’Antico Testamento (Samuele 18:10) è l’arma con cui Saul, primo re di Israele, accecato da uno “spirito maligno” che gli provoca una folle gelosia, tenta di “inchiodare al muro” David, suo menestrello di corte e in seguito rivale/pretendente al trono. Il rapporto tra Saul e Davide può essere letto alla luce di una dinamica basata sulla musica: qualora il re venisse invaso dallo spirito maligno, il suono della cetra suonato da Davide serviva a farlo rinsavire. Questo potere curativo della musica viene presto a scomparire quando Davide, grazie a numerosi successi militari (la storia di Davide e Golia, ad esempio), diventa una minaccia per Saul, già estremamente provato nello spirito. Il giavellotto con cui tenta di ucciderlo si può leggere come arma simbolo della gelosia, della smania di possesso, di ingiunzione di un privilegio o di una posizione dominante. Nella traccia omonima, Javelin, il sottotitolo ricalca la formula del matrimonio: to Have and to Hold, l’idea del possesso e del mantenimento, della cieca gelosia, che può portare ad azioni violente e inspiegabili. Il nome Sufjan, che viene ripreso da una figura storica, Abu Sufyan, prima oppositore poi seguace di Maometto, significa grosso modo “colui che brandisce la spada”: queste suggestioni ci potrebbero far pensare a Stevens come a una figura assimilabile sia a Davide, nel suo essere musicista/taumaturgo, sia a Saul, nel suo essere (stato) geloso fino ad accarezzare propositi violenti. Il titolo del disco potrebbe allora fare riferimento a questa ambiguità.
Un’altra metafora presente nella Bibbia è quella delle armi come parola di Dio. Nel Nuovo Testamento (Ebrei 4:12) si legge: “la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito […] e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore”. I genitori di Stevens facevano parte di Subud, un movimento spirituale internazionale definito come interfaith, che intende Dio più come una sorta di illuminazione che di figura. Un Dio da cercare tramite una costante pratica spirituale. In uno dei 10 saggi, Stevens scrive: “God is not natural, but supernatural. The real material of divinity is ineffable, unassailable, unknowable, unutterable, and unreal. The evidence of providence is not within our line of sight, nor within our grasp, but instead beyond and behind our physical kinesphere. It is unapproachable, unspeakable, unobservable, and ultimately erstwhile”. E’ un errore di valutazione cercare la trascendenza (in Everything That Rises Stevens canta “Can you Lift me up to a higher place?”) nel mondo sensibile, nelle parole e nel linguaggio (in un altro saggio si parla di “grammar-game of possession, domination and death”, una delle canzoni più toccanti del disco si intitola Shit Talk), finanche nell’amore fisico: i corpi sono destinati all’oblio (in So you are Tired Stevens canta: “So rest your head / Turning back all we had in our life / While I return to death”), il vivere stesso è essere destinati all’oblio (“I was born into oblivion”), quello che rimane sono delle apparizioni, ipostasi, emanazioni di un divino inconoscibile: “a gothic apparition, a vision of love, a dance of the eternal travesty of life”.
Per resistere alla perdita, a quel senso di smarrimento totale reso chiaro in Will Anybody Ever Love Me, e descritto in un altro saggio come “the bleak underbelly of realism […] that nothing really matters, nobody loves me and loneliness would always be my most devoted companion”, o come il “male oscuro” che colpiva Saul, non ci è dato altro, secondo Stevens, che cercare di partecipare a questa divinità presente in tutte le cose (“All God’s Children in the Wind” nella cover di There’s a World di Neil Young che chiude il disco), una sorta di anima mundi in senso neoplatonico, richiamata nei saggi con immagini come la musica delle sfere, “a womb-world of benevolence and buoyancy”, “The Divine Inside”. Concetti teologici universalistici, sincretistici, forse derivanti da una formazione spirituale che potremmo riassumere brutalmente come new age o, appunto, interfaith; la cosa che risalta è l’accettazione di una sorta di missione: “Digging for the true grit in the eternal dirt of the universe”, accettare di essere mortali, e di rinunciare al possesso (to have and to hold) e alla pretesa che vi sia qualcosa di trattenibile, in favore di un rinnovamento perpetuo che sembra assomigliare al concetto di reincarnazione.
Il primo pezzo del disco, Goodbye Evergreen, racconta di questa presa di coscienza che Stevens fa corrispondere all’atto della nascita: “But everything that Heaven sent / Must burn out in the end”. La nascita corrisponde, nel primo dei dieci saggi, alla scissione da questa totalità: “I was love and life supreme, undivided by thought, word and deed […] My birth was my undoing”. Nascere, venire al mondo implica una separazione dal mondo stesso, una frammentazione originaria (torna qui il motivo gnostico del desiderio di non nascere, presente nella Bibbia nella figura di Giobbe, ma anche il ricordo di un peccato originale), l’ingresso nella pretesa, linguistica ancora prima che esistenziale, di comprendere, afferrare, possedere. L’ultimo dei dieci saggi parla di una reincarnazione: “I was pandemonium personified. I was once again myself waiting to happen again and again and again and again…until the end”. Ri-nascere continuamente, in una costante ricerca della trascendenza anche nelle cose minime (“I was a peanut. I was a pretzel”, o ancora, in un altro saggio, “I wanted the simplest of things”), senza avere la pretesa di afferrarle o controllarle. In questo senso torna allora la concezione del giavellotto del Nuovo Testamento come parola di Dio: Javelin è una specie di Diario Spirituale, non dissimile da quei testi in cui i mistici riportavano la loro esperienza di trascendenza, dove Stevens racconta diversi momenti di questa trasformazione continua, di questo abbandono all’oblio e alla metamorfosi, di questi “previously known encounters” con la dimensione terribile del divino. In uno dei dieci saggi si legge: “God gave me a pen and a pad of parchment paper. ‘Transcribe your feelings’ she said. ‘Do your thing. First thought, best thought’”. Javelin è esattamente questo, non un disco “d’occasione”, dove l’occasione è il lutto (come Carrie and Lowell, con cui condivide la sostanza folkish/pastorale/innodica), ma un tentativo più ambizioso di afferrare qualche vision of love in un universo incomprensibile e perennemente transitorio, un’arma da lanciare verso l’oblio per far sì che anche questo risuoni di qualcosa.