Se dovessi citare l’artista che ha maggiormente scandito per me la prima metà del 2015, questo sarebbe senza dubbio Sufjan Stevens: prima con il riascolto dei suoi vecchi album e poi con l’uscita, in marzo, di quel meraviglioso ritorno alle origini che è Carrie and Lowell. In queste condizioni non potevo fare a meno, quattro mesi fa, di acquistare il biglietto per la sua data parigina, andata sold out in mezz’ora, per poi essere affiancata da un secondo concerto.
La location dell’evento è il Grand Rex (Parigi): una vecchia e stravagante sala da cinema, i cui interni riproducono città fantastiche, con ambientazioni e arredamento al limite del kitsch. È proprio il finto cielo stellato della Grande Salle, insieme al decoro di statue e pareti a imitazione di una città mediterranea, ad ospitare il concerto di Sufjan. Il teatro è completo in ogni ordine di posti e ci sono addirittura gli strapuntini.
Dopo il trascurabile set di apertura dei Madisen Ward & the Mama Bear (un mix di country blues e soul che definire noioso è davvero riduttivo), alle nove in punto le luci si spengono, la sala piomba in un silenzio imbarazzante e il concerto si apre al pianoforte, con le note di Redford (For Yia-Yia & Pappou), i giochi di luce hanno l’effetto desiderato di trasportarci in una dimensione eterea. Ci mette il suo anche l’odore di incenso che, acceso ai bordi del palco, invade le prime file e aumenta la dose di misticismo. Il tempo di imbracciare il banjo e posizionarsi al centro del palco, e Death with dignity viene servita in tutta la sua purezza. Da questo momento in poi, saranno i silenzi a dominare la scena, gli stessi che riempiranno il teatro appena le dita si sollevano dalle corde, appena la voce si tace. La chitarra di Sufjan è tenuta al minimo (sembra quasi non amplificata) e gli arpeggi sembrano uscire da una stanza vuota, come essere seduti di fronte a lui, su un divano qualunque, mentre ti racconta le storie della sua infanzia, con un andamento lieve e profondo allo stesso tempo. La sua voce arriva come sussurrata all’orecchio, perché quando canta si tiene a dovuta distanza dal microfono e questo contribuisce a salvaguardare l’intimità della performance. I pannelli alle spalle della band alternano scene di infanzia ai limiti del bucolico, con paesaggi marini dai colori seppia.
Per tutta la prima parte del concerto Stevens mette in fila, in ordine sparso, tutti i brani dell’ultimo album, come fosse una lunga confessione, lo fa senza mai dire una parola che non sia cantata, per non spezzare l’incanto del suo flusso di coscienza. Ci si aspetterebbe arrangiamenti sostanzialmente acustici, ma a quanto pare la voglia di giocare con i suoni elettronici non si è estinta con il bello e controverso The age of ADZ, ma è ancora viva e presente. Così accade che le tastiere e soprattutto il computer entrino dolcemente a far parte della struttura dei brani, più presenti che sul disco, molto più marcati. È sotto questa luce che All of me wants all of you diventa un brano praticamente elettronico e che spesso la voce del nostro venga doppiata da un delay, in maniera estemporanea, in uno dei brani più toccanti dell’album: Fourth of July.
Le uniche eccezioni al disco nuovo, nella prima parte del concerto, sono The Owl and The Tanager e la meritatamente applauditissima Vesuvius in cui Sufjan si scioglie, mostrando le sue doti di ballerino e, per un attimo, sembra di essere ad un live electro, solo che le parole non sono certo le più rassicuranti. La prima parte del live si chiude con Blue Bucket of Gold, divinamente allungata da una coda strumentale estremamente azzeccata.
Vivo in Francia da 9 mesi, di concerti e festival ne ho visti un bel po’, e non mi è mai capitato di vedere il pubblico applaudire, in piedi, ininterrottamente per 10 minuti esatti, roba da personale Guinness dei primati. Dopo una reazione del genere, il previsto encore è servito con grande gioia da parte di Sufjan e Concerning the UFO Sighting Near Highland, Illinois chiarisce che d’ora in poi sarà tutto un tuffo nel passato. Dopo l’intimità si può anche salutare il pubblico, ringraziarlo e presentare i musicisti. L’atmosfera si distende un po’, ma la magia non si estingue e così Futile Devices colpisce al cuore e John Wayne Gacy, Jr. affonda. C’è poco tempo, ahimè, alle 23 il live deve finire e così, dopo la romantica To be alone with you, tocca al classicone Chicago chiudere il set, vestito di un arrangiamento nudo, depurato da ogni tipo di infrastruttura. È magia, ancora una volta, mentre sulle labbra di tutti si forma inconsapevolmente quell’ “I made a lot of mistakes” così facile da condividere. Non servirà l’ennesima standing ovation di dieci minuti, purtroppo non si può continuare e la band non ritorna dopo essersi congedata. Le luci si accendono e bisogna abbandonare la sala, ancora mezzi in silenzio, ancora trasalendo, bisogna riabituarsi alle parole, lentamente, come quando si è appena svegli.
Sufjan Stevens è senza dubbio uno dei più grandi autori e interpreti musicali contemporanei e il live che porta in giro ne completa le qualità, già abbondantemente evidenziate dai suoi album, mettendo a fuoco lo spessore di ogni singola traccia e l’audacia degli arrangiamenti, ma la cosa più importante che questo concerto è riuscito ad insegnarmi, soprattutto, nella prima parte è che i silenzi vanno rispettati ed ascoltati, con attenzione, perché nel loro piccolo, hanno la stessa, identica importanza dei suoni.
Cover photo: Hartford, CT (Photos) | PopMatters