Subterranean Voices è l’estensione naturale della rubrica che ogni mese raccoglie le uscite più interessanti del panorama underground italiano ed europeo. In questo numero parliamo con Cabeki, il moniker di Andrea Faccioli già collaboratore con Le Luci della Centrale Elettrica, Julie’s Haircut, Giardini di Mirò e tanti altri. A ottobre è uscito il terzo album da solista, Non ce la farai, sono feroci come bestie selvagge per Brutture Moderne. Ha ritagliato uno spazio durante le registrazioni del nuovo album dei Baustelle (di cui sarà la chitarra, già presente nel nuovo brano Lili Marlen) per rispondere alle nostre domande, fra presente, passato e un nuovo punto di arrivo per la sua carriera.
Sono passati quattro anni da Una macchina celibe, il tuo secondo disco, eppure non ti sei mai fermato. Hai lavorato a diversi progetti, tutti differenti fra loro per stile e genere. Poi all’inizio di ottobre è uscito Non ce la farai, sono feroci come bestie selvagge. Qual è il rapporto fra la tua sperimentazione solista e la collaborazione ad altri lavori.
Per me “sperimentazione” non è altro che giocare con suoni, soluzioni, arrangiamenti, anche imprevisti ed errori (che spesso ti portano a soluzioni inaspettate ed efficaci). Quindi il collaborare con altri progetti non è altro che uno stimolo in più a “giocare”. Si tratta di divertirsi, alla fine di tutto.
Confrontando i tuoi primi due album con quest’ultimo sembra esserci qualcosa di diverso. Il montaggio delle attrazioni e Una macchina celibe sono due dischi impregnati di riflessione, musicale e interiore, che si dedicano particolarmente al disegno di atmosfere e impressioni in chi li ascolta. Nel tuo ultimo lavoro, invece, si intravede un cammino differente, più legato a una graduale scoperta del nucleo attorno a cui tutti i brani si raggruppano, secondo un percorso di scoperta. È cambiato, ma forse è un aspetto secondario, anche il modo in cui intitoli le canzoni, rendendole così più enigmatiche rispetto a prima, in cui piccoli aforismi sembravano poter delineare il tema di ogni singola composizione.
I titoli sono più corti perché ero stufo di perdere tre ore a fine concerto per scriverli sul borderò della SIAE, e il titolo del disco è già abbastanza impegnativo da questo punto di vista. A parte gli scherzi, effettivamente anche i titoli più corti fanno parte di un percorso sempre più verso l’essenziale. Tutti i brani, come dici tu, girano attorno ad un unico nucleo compositivo, fatto da un solo strumento, arricchito poi da colori esterni: una sorta di atomo. Ci sono molto meno sovraincisioni rispetto ai dischi precedenti.
In questo disco si sono intensificate le collaborazioni e l’aggiunta di nuovi suoni. Si va dalla viola ai fiati, e tutta un’altra serie di strumenti suonati da altre persone. Ma oltre a conferire un ampliamento del campo sonoro si ha anche una apertura verso nuovi, e inusuali, interpretazioni. Scrivendo la recensione mi sono accorto di come la leggenda dei samurai non potesse che essere soltanto uno dei riflessi. C’è Walden che guarda le foglie cadere, un vecchio liutaio del Mississipi e anche materiale per un’oscura storia d’amore ne La vetta. Come se tutte queste storie potessero essere assimilabili alla stessa cosa. Quel non ce la farai, del titolo non suona più così hobbesiano come prima.
Credo che dietro a bellezza e leggerezza si celi sempre un lato oscuro e cruento, da cui spesso nascono e senza i quali non potrebbero avere la forza per emergere in tutta la loro grandezza. La vedo un po’ più alla Baudelaire, diciamo. Gli ospiti, in questo disco, sono stati chiamati innanzi tutto per soddisfare la voglia di condividere con amici un mondo che potrebbe sembrare chiuso e autocelebrativo. E poi un bisogno di allargare le potenzialità degli arrangiamenti.
Le collaborazioni si aggiungono a un nucleo musicale già da solo multiforme e polistrumentale. Senza scendere nel dettaglio sul nuovo setup con cui porterai in giro il nuovo disco, ero molto più interessato alla dimensione del live in quanto live. Inteso come modo di comunicazione musicale diretto, le differenze che ci sono tra farlo da solista e invece in un gruppo e, soprattutto, le cose che vorresti comunicare e che tipo di sensazione speri possano provare le persone che ti vengono ad ascoltare, quello spazio che sta fra aspettative e aspirazioni.
Cerco di non pensare alla aspettative di chi mi deve ascoltare, altrimenti non uscirei di casa, data la mia cronica “insoddisfazione”. Invidio chi è molto sicuro di sè. Comunque, prima di tutto, faccio quello che faccio perché mi piace, e già questo, secondo me, aiuta paradossalmente a coinvolgere chi ti ascolta. Poi il concerto può non piacere, però è una buona partenza. Affrontare i live da solo è abbastanza devastante a livello fisico ed emotivo, però alla fine del concerto ai molte soddisfazioni, quando va bene. Il condividere un palco con altre persone è molto diverso, è proprio un altro concerto, visto da sopra. E a volte con Cabeki mi manca quel tipo di catarsi che si crea sul palco…anche affrontare i chilometri in compagnia.