La vita di Janek Gorczyca: come abbracciare e fuggire il cielo

La mia lettura di Storia di mia vita, pubblicato da Sellerio, è stata accompagnata da un refrain derivante da una frase che spesso risuona nella mia testa che più o meno si può riassumere in “sei sempre più vicino alla strada di quanto tu non lo sia a diventare ricco”.

DIVAGAZIONE.

C’è un libro di grandissimo successo sul quale praticamente è già stato detto tutto che si chiama “Persone Normali”. Chi sono queste persone normali? Studenti, molto benestanti, molto Trinity College, molto molto lontani se si va a ben vedere da una vera “persona normale”. Eppure il legame empatico che si è venuto a generare con il lontano è stato quantomeno travolgente, tanto da rendere il romanzo un vero e proprio fenomeno di massa. Tutti sanno di Connell e Marianne, tutti sono entrati nella pelle di Connell e Marianne. Eppure il concetto di “potenza”, in particolare di una potenza socializzata, ci dice che in tanti siamo più vicini a Janek Gorczyca che a dei Connell e Marianne o a dei newyorkesi di Franzen, o insomma a qualsiasi cosa abbiamo spesso considerato come vicina. Leggere non è però forse sentire vicino il lontano? Certo, anzi totalmente. TOTALMENTE.

Ma è anche comprendere chi è il vero vicino. O no?

FINE DIVAGAZIONE.

Una strada, foto Franck Michel

Dunque, torniamo a “Storia di mia vita”. A Janek. È un libro diretto, scritto in una lingua diretta, una lingua tanto vitale quanto poco grammaticale, eppure corretta. È un libro che rigetta pietà e pietismi, che non ha intenzione di metterci di fronte al personaggio martire, ma che mostra violenze, idiosincrasie, rabbia, droghe. È un libro che pur non spingendosi sino alla nuda vita agambeniana è quantomeno portatore di una vita scarna, una vita spoglia, ma non nel senso di un’aggettivazione negativa bensì di un principio costituente del pieno.

Il centro geografico del libro, oltre ad essere Roma, è un luogo chiamato La Torre. Gorczyca riesce ad entrarvi dopo aver subito la perdita del lavoro ed uno sfratto e stabilirvisi. La Torre diventa per Gorczyca non solo casa, ma anche luogo di accoglienza, un posto man mano da rimpolpare, sistemare e riempire di persone che come lui hanno bisogno di un luogo dove stare, di rifugi, di scappatoie, persone che gli porteranno gratitudine, ma anche persone che gli porteranno grane, perché la persona questo è: stratificata e molteplice qualunque sia il suo “ambiente”.

Nei passaggi costitutivi della nuova comunità l’autore mette al centro il bisogno fondamentale di creare dei rapporti basati sulla fiducia, ma soprattutto sull’amicizia, una parola che Gorczyca non ha paura di usare più apertamente di quanto non si tenda a fare di solito. Lui si è fatto amici i padroni di cani del parco, si è fatto amici gli abitanti dei palazzi circostanti, i proprietari del centro sportivo, e vi è in questo un collegamento fondamentale alla vita scarna di cui si accennava in precedenza, una vita con meno sovrastrutture e un approccio più naturale alla carne e alle anime, in un contatto fatto di una socialità originaria. E non è esagerazione poiché proprio nei momenti più bui Janek può veramente affidarsi a questi legami, tra cui l’amico Christian che altri non è che Christian Raimo, colpito proprio in questi giorni da uno dei casi di censura più pesanti degli ultimi anni.

Janek Gorczyca inoltre ha una cosa importantissima e trasversale, l’amore di Marta e per Marta.

Janek illustra la costante repressione, la vivida caccia a cui sono sottoposti gli ultimi, la polizia, le domande, gli sgomberi, il divieto ad un essere umano di ricavarsi un tetto sopra la testa e mostra un lato che le narrazioni comode tendono ad eliminare in maniera repentina. Janek e Marta sono inseriti, infatti, nel “ciclo produttivo” o detto in parole più semplici: lavorano. Marta è una delle tante donne, spesso immigrate, che puliscono i nostri uffici, i negozi, le nostre case, Janek è un fabbro esperto che presta le sue maestranze prima ad un’officina e poi ad altri lavori saltuari dentro ville, case, palazzi. Le nostre ville, le nostre case, i nostri palazzi, eppure entrambi non esistono, risucchiati nel mare del lavoro nero. Entrambi pur lavorando, vivono in regime di occupazione, entrambi sono espulsi dal circolo sociale.

Gorczyca racconta il mutamento della sua abitazione, le migliorie apportate, gli agganci alla rete elettrica e alla rete idrica sempre legati al sistema di amicizie e in qualche modo alla rete di supporto creatasi intorno alla Torre. Ma il mondo della strada rimane pur sempre un mondo complesso, un mondo spesso predatorio e anche violento. Non poche sono le risse in cui l’autore si trova coinvolto, tanto alla Torre quanto nelle altre località cittadine nelle quali si trova a peregrinare, appartamenti di amici, altri luoghi occupati, ospedali.

Ed è scorrendo il libro che si trova man mano risposta a domande sempre più fameliche, poiché l’assenza stessa della casa apre nel lettore (che si presume averne una) uno spaesamento. Come mangia chi non ha diritto ad abitare? Come beve? Come si lava? Come caga?

Janek Gorczyca

Il libro oltre ad essere una storia di vita è anche una porta su sul senso più puro dell’abitare, anche non necessariamente legato ad una terra, ma anche ad un abitare nomade, ma che sia garantito, con un tetto che sia presente. Lo stesso Gorczyca quando lascia intendere che la sua tipologia di vita è anche stata mossa da un certo tipo di desiderio, si richiama ad una tensione verso una vita sbandata, ma non disabitata.

“Storia di mia vita” è inoltre una storia d’amore profonda, ed è una storia che mette dolcemente in mostra il connubio tra amore e dolore.  La vita di Gorczyca è stata piena di eventi crudi, eventi che avrebbero disintegrato chiunque e che hanno portato lo stesso Gorczyca sulla via dell’autodistruzione, ma l’unico momento in cui l’autore collega al ricordo il dolore è quando sta parlando di amore e di tutto ciò che orbita intorno alla sua Marta.

Leggere il libro sotto la lente della comunanza e del possibile mostra tutto il suo potenziale all’interno di uno spazio che apre alle paure, ma anche al bisogno della creazione di reti sociali solide. Gorczyca non ha come intenzione quella di un libro di denuncia, né un libro che si ponga come elemento teorico, anzi è un testo abitato da una forza seminale, ma è la natura stessa del libro ad aprire le porte a considerazioni che dovrebbero entrare dentro le case di chiunque, che dovrebbero depotenziare i miti di sogni americani e self-made-man e farci aprire gli occhi sul trovarci tutti sull’orlo della disperazione, come diceva il personaggio di un famoso film.

In questo senso la lettura del libro di Gorczyca si trasforma dalla storia di sua vita al lento scorrere delle persone che l’hanno abitata. Non persone normali, ma persone vicine.

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