Vincitore del Prix de la mise en scène (alla miglior regia) all’ultimo Festival di Cannes, e reduce dal trionfo agli European Film Awards (dove ha conquistato i premi come Miglior film, Miglior regista, Miglior attrice, Miglior sceneggiatura e Miglior montaggio), Cold War l’ultimo film del polacco Paweł Pawlikowski, è nelle sale italiane dallo scorso 20 dicembre.
Autore poliedrico partito dal documentario (Da Mosca a Pietushki sul Poema Ferroviario di Venedikt Erofeev, I Viaggi di Dostoevskij, Epiche serbe, Cadendo con Zhirinovsky) e approdato al cinema di finzione con opere quali il bellissimo The Summer of Love del 2003, Pawlikowski deve la sua notorietà internazionale (per un autore vissuto tra Polonia, Germania, Italia e Inghilterra) a Ida – il film in bianco e nero del 2013 che raccontava di una giovane novizia nella Polonia del 1962 e della sua ricerca à rebours delle origini della propria famiglia segnata dagli orrori del nazismo – vincitore di un Oscar come Miglior film straniero.
Cold War è la storia d’amore tra Wiktor (Tomasz Kot) direttore d’orchestra, pianista e musicologo e Zula (Joanna Kulig) giovanissima e irrequieta cantante su cui pesa l’ombra dell’omicidio del padre. Il loro amore copre un arco temporale che dagli anni cinquanta giunge fino alla metà degli anni sessanta mostrandoci, come in una successione di blocchi, dapprima il loro incontro (Zula è scelta nel corso di una ricerca musicologica per il progetto di una compagnia itinerante che porti la vera musica dei popoli dell’est nei paesi della cortina di ferro e oltre) quindi, la passione e il tormento di un amore che li vedrà prendersi e lasciarsi tra Varsavia, Berlino, la Jugoslavia di Tito e Parigi.
Pawlikowski abbandona completamente ogni idea di omogeneità e di continuità tra spazio e tempo mettendo in scena sullo schermo la storia frammentata dei loro incontri e lasciando, nei frequenti spazi neri, un mondo di sottintesi talmente ampi da farsi vere e proprie voragini del racconto. Con la sua scrittura e la sua regia Pawlikowski che, in un montaggio d’autore, alterna i paesaggi della Polonia alle strade parigine, suggerisce al pubblico l’impossibilità di trovare risposte in maniera realistica a domande universali: perché Wiktor e Zula si amano? Qual è la scintilla di quest’amor fou? Perché nonostante l’amore sembrano non riuscire davvero a stare insieme? Qual è davvero la loro vita di là dalla passione che li travolge e li annienta?
Cold War si fa così un film fortemente elusivo che costringe con la forza dell’incanto il pubblico a riempire lo spazio vuoto del racconto. Tutto ciò che volontariamente manca nell’intreccio, lo ritroviamo sullo schermo nell’intensità dei due attori, in un bianco e nero filmato in 16 mm che regala al pubblico in sala un poema di chiaroscuri sgranati, nelle musiche che, dai canti folkloristici che accompagnano la prima parte del film, scivola poco a poco nelle atmosfere fumose dei jazz club nella Parigi degli anni cinquanta ancora sotto il sortilegio della tournée di Miles Davis e della sua breve quanto indimenticabile storia d’amore con Juliette Gréco.
Cold War è un film sospeso tra la classicità formale che lo contraddistingue – quel bianco e nero che riporta alla mente alcuni capolavori di quegli anni – e la tensione così forte che lo attraversa; segni distintivi e antitetici da farne un film allo stesso tempo contemporaneo e universale. Ci sono passaggi che inchiodano alla poltrona per la loro bellezza. Il piano sequenza del ballo nel night club con cui Joanna Kulig mette in scena una miscela indimenticabile di erotismo, gioia di vivere e profonda tristezza che come ombre si allungano sul suo volto bellissimo, capace di illuminarsi in un solo istante con un sorriso – in una scena la sua comparsa in sala di registrazione ha i colori di una chiamata divina come nella Vocazione di san Matteo del Caravaggio – e che evoca la forza iconica di attrici quali Anna Karina, Brigitte Bardot, Jane Seberg e Jeanne Moreau. Wiktor che, tornando a casa dalla sua compagna, alla domanda se è andato a puttane le risponde “Non posso permettermi le puttane, ho rivisto la donna della mia vita” mentre sono stesi su un letto senza cuscini in una mansarda nella Montmartre bohémienne. O ancora il battello notturno lungo la Senna sul quale si tengono stretti per paura di perdersi con la camera che segue il loro sguardo puntando sulle rive del fiume tra i marmi bellissimi e un’umanità crepuscolare di drogati, amanti, poeti che attraversano la notte scurissima per rimandare l’arrivo dell’alba.
Cold War è un film che lascia fuori dallo schermo tutto ciò che fino a pochi istanti prima ci sarebbe apparso essenziale e d’improvviso ci appare superfluo; che sceglie il formato già usato per Ida, un ratio 1,33:1 così inusuale per chi è sempre più assuefatto all’impero del widescreen, e che qui diventa precisa scelta estetica costringendo quasi i protagonisti in uno spazio dove non possono evitare di collidere l’uno con l’altro, di cercarsi, di annusarsi, di toccarsi, di lottare per sopravvivere a questo amore e a un mondo intorno che li allontana, li fiacca, li rovina (la distruzione post bellica, la guerra fredda, il sospetto delle spie, la Jugoslavia non allineata sono frammenti che entrano ed escono dalle loro vite e si muovono come fantasmi sullo schermo).
La linearità e la chiarezza dell’intreccio così come i passaggi della loro storia d’amore si fanno superflui perché la verità dei sentimenti, del loro amore, sta tutta nei volti, negli sguardi, nello sfiorarsi, nelle inquadrature che colgono e rimandano quel cercarsi disperato, quel prendersi dalla vita tutto ciò che possa spezzare il grigiore quotidiano, l’opprimente calotta plumbea d’ideologie che hanno occupato il posto che la guerra avrebbe dovuto consegnare alla libertà.
È un film che riconcilia con una precisa idea di cinema, mai accondiscendente, mai banale, mai didascalica – sempre più lontana dalla programmazione di molte sale e negli ultimi anni anche di alcuni Festival – arte cinematografica che guarda al mondo esterno e alle pieghe del proprio passato (dietro la storia tra Wiktor e Zula si nasconde un omaggio a quella, tormentata, tra i genitori del regista) ed è imbevuta di cinema francese degli anni trenta come di certo cinema dell’est degli anni cinquanta e sessanta e, ancora, di certa letteratura di quegli anni tra esistenzialismo ed esuli sudamericani.
È quasi impossibile non farsi trasportare in un commovente viaggio nel tempo, nello spazio e nell’immaginazione tra le strade che conducono alla Rayuela di Cortázar, all’amore tra Horacio e la Maga al punto che – quando lo schermo va a nero dopo un fuoricampo finale di estremo pudore, mentre le dita di Glenn Gould accarezzano il pianoforte nell’Aria di apertura delle Variazioni Goldberg – vorresti ritrovarti in una soffitta con i personaggi di Rayuela, con il piccolo Rocamadour che dorme in un angolo, a parlare di cinema e di jazz e di letteratura, a trasmettere, a sentire con un’urgenza quasi violenta così tanta bellezza e così tanta tristezza. O ancora immaginarsi con i sognatori di Bertolucci a spingersi ancora più avanti sulle poltrone per diventare un tutt’uno con le immagini proiettate sullo schermo a confondere vita e sogno, verità e bellezza, confusione e armonia.
Cold war è tutto questo, un film asciutto, severo, formale eppure capace di trasudare emozione, sensualità, fascino a ogni inquadratura, a ogni dialogo, al passaggio di ognuno dei suoi fotogrammi. È il piccolo miracolo che arriva alla fine dell’anno. Non perdetevelo.
Andiamo dall’altra parte, la vista è migliore da lì