“Porterò con me nel viaggio un’inutile conoscenza del globo terrestre, una lettura superficiale dei filosofi e, terza cosa, un desiderio di annientamento e una speranza di liberazione. Porterò inoltre un mazzo di carte, una macchina da scrivere e un amore infelice per la gioventù europea.”
In questo breve frammento di Stig Dagerman sono condensate alcune delle ragioni immediate per leggere Stig Dagerman, scrittore, poeta, giornalista svedese, un anarchico innamorato della gioventù europea, che spinto da un “desiderio di annientamento” ci lasciò suicida a 31 anni. Leggere Stig Dagerman è schiantarsi contro il cuore dell’uomo allo stato brado, le sue speranze di liberazione, dal totalitarismo, dall’autorità, dallo stato, da tutto quello che per il cuore è una trappola; leggere Stig Dagerman è spingersi oltre, verso quel territorio che è molto più grande e segreto, fatto di miseria e sogni, fallimento e libertà, gioventù infrante dal militarismo; leggere Stig Dagerman è entrare nell’autunno d’Europa portandosi appresso speranze di nuova primavera. Fa niente se poi quelle speranze ne usciranno frantumate, l’importante è averle potute vedere – che a volte le parole hanno una forza di evocazione di visione molto più grande della visione stessa – e Stig Dagerman ha una forza evocativa tremenda, che si ficca sottopelle, un’energia che sprigiona dalla penna, dalla macchina da scrivere.
Già ne Il serpente, il romanzo di esordio di Dagerman uscito nel 1945 e da poco pubblicato da Iperborea con traduzione di Fulvio Ferrari, sentiamo agitarsi questa forza, questa energia umana e viscerale – il pieno vigore giovanile di uno scrittore che a poco più di vent’anni tirò fuori una storia di macerie allucinate che riuscì a colpire a fondo i lettori dell’epoca, tanto da rendere quella di Dagerman una voce generazionale avvolta da un’aura mitica e clandestina. Non importa chi siano i protagonisti di questo viaggio che ci fa fare lo scrittore attraverso la Svezia della seconda guerra mondiale, e nemmeno importa se si tratti di un romanzo o di una variazione di racconti tenuti insieme da un filo rosso – la vita dei soldati, i loro pensieri, i loro incubi. Quello che veramente ha importanza è la luce, la luce con cui Dagerman illumina pure le cose tremende, questa luce speciale che solo le parole sanno tirare fuori; il gioco narrativo sospeso tra tensione e immagini, i dialoghi sferzanti, la scrittura d’atmosfera capace di dirottare dentro il cuore vivo della storia.
Quello che vuole raccontare Stig Dagerman nel Serpente è la paura, come la gioventù europea abbia rinnegato la paura e l’angoscia in nome di un finto entusiasmo che trascina alla guerra e al massacro. Tuttavia la paura non si può estirpare, attraversa i cuori infima e velenosa come un serpente, è nelle voci dei soldati, nei pensieri di Irène, nello specchio dove Allegria vede riflesso il suo volto deformato, nel grido disperato del poeta Scriver che nel bellissimo atto di sovversione nel finale del libro dirà: «Ribadisco con la più assoluta certezza che la mia paura è la più grande del mondo.». Il serpente, con le sue misteriose apparizioni, è sempre lì a strisciare, entra negli zaini come un prigioniero, si lascia sentire nella urla trattenute dei soldati in caserma – è nel sentimento di oppressione che esplode nella parole di Edmund, quando si scaglia contro uno Stato che lo manda a combattere senza sicura, e confessa: «mi sento oppresso come se avessi un cerchio di ferro intorno alla testa sapendo che ci sono leggi che nessuno mi ha chiesto se ero d’accordo di accettare e che mi rendono praticamente inerme».
È contro questa esperienza di oppressione che si getta il grido libertario e solitario di Dagerman, contro le gabbie di dominazione del potere, perché è da quel potere che deriva la guerra, dalla paura di avere paura, dalla paura di sfidare la gabbia. I suoi personaggi sono terribilmente vivi con le loro angosce e le loro vite di tutti i giorni, possiamo quasi toccarli fisicamente, sentire le loro voci addosso, come quando ci ritroviamo a seguire Irène nel suo viaggio a bordo di treni e autobus e veniamo travolti dai suoi pensieri, ancora più sballottolati dei mezzi su cui viaggia; o quando nell’ideale seconda parte “Non riusciamo a dormire” ci perdiamo nel coro nottambulo di voci dei commilitoni che per cercare il sonno la sera si raccontano storie, e la loro voce si perde fino a mescolarsi in un grande noi, con un finale che è fortemente evocativo di come questa forza collettiva sia un insieme di solitudini che nel separarsi finisce per smembrarsi nei tanti io che la compongono:
“Poi, all’improvviso, ci separiamo come se fino a quel momento fossimo stati tenuti uniti da un nastro sottile che ora qualcuno ha spezzato. Con aria indifferente e muti saluti prendiamo direzioni diverse, a piccoli gruppi o da soli, come ci spinge l’angoscia.” (Il Serpente)
Il grido terribile e umanissimo di Dagerman è il grido che si scaglia dalla parte degli innocenti di fronte ai grandi eventi che la storia batte come un tamburo, un grido che disvela pure il rapporto tra individuo e autorità e che torna spesso nell’opera dello scrittore svedese. Dagerman sta dalla parte delle vittime e della loro sofferenza, e lo fa con un vero talento per scrollarsi di dosso le grandi lenti ideologiche della storia e del potere, e i suoi netti bianchi e neri. L’originalità dello sguardo di Dagerman si sente per esempio nel reportage Autunno tedesco, dove lo scrittore veste il ruolo di giornalista inviato nella Germania appena liberata dal nazismo e trascorre l’autunno nelle città tedesche, città bombardate e fatte a pezzi, tra la gente che ha fame e le cantine disperate dove ci si arrangia per vivere. Davanti a quello spettacolo Dagerman mostra una compassione per il popolo tedesco che all’epoca sembrava inconcepibile, ci immerge fino alle budella nel dolore dei colpevoli, arriva addirittura a spiegare i sentimenti di quella parte di gente che quasi rimpiange il nazismo, perché dopo le bombe sta morendo di fame, perché «la sofferenza meritata non è meno difficile da sopportare di quella immeritata, la si sente ugualmente nello stomaco, nel petto e nei piedi».
Sarebbe limitato parlare di Autunno tedesco solo come di un reportage, perché la sua grandezza sta nei frammenti di storie che riesce a raccogliere Dagerman, nel restituirci una testimonianza di miseria e sconfitta con un’inquadratura letteraria, e soprattutto nell’originalità anarchica del suo sguardo, che ci regala momenti di riflessione brechtiani quando racconta una Germania affamata dove rubare per fame è tollerato e scendere in basso è più lecito che soccombere.
“Questa Berlino assiderata, affamata, che vive di affari loschi, che è sporca e immorale, riesce ancora a essere divertente e così gentile da invitare a casa degli stranieri solitari per offrire loro un tè; ci sono ancora persone come questa insegnante polacca e questo soldato, che senza dubbio vivono in modo illecito ma, paradossalmente, sono punti luminosi in una grande oscurità, perché hanno abbastanza coraggio per scendere in basso a occhi aperti.” (Autunno tedesco)
Come Il Serpente, Autunno tedesco è un libro speciale e popolato di angoscia, perché ci introduce al dolore degli infetti, e ci porta davanti a domande brutali e scomode, come quelle sull’obbedienza all’autorità, anche quando questa reclama l’assurdo: «ma in fin dei conti non è questa stessa obbedienza che caratterizza il rapporto dell’individuo con l’autorità in tutti gli stati del mondo?». È una bellissima e terrificante riflessione quella che ci mette davanti Dagerman, che coglie in pieno quel rapporto tra individuo e autorità di cui racconta anche nel Serpente quando affonda nei travagli dei soldati: lo Stato ha i mezzi per ottenere l’obbedienza dei suoi cittadini, ogni azione può ridursi a un salvarsi la pelle, persino obbedire. E sono tanti i pensieri che assalgono la mente mentre ci perdiamo in un autunno tedesco massacrante, camminiamo tra le rovine delle città, incontriamo ex-nazisti e anti-nazisti ugualmente sfasciati, la miseria delle classi popolari e i tribunali di denazistificazione che diventano teatri per le persone più povere in cerca di una divagazione senza costo di biglietto; e in questo autunno terrificante riconosciamo l’essere umano e la sua grande tragedia, quella di chi ha creduto al potere e quella di chi lo ha disertato, e in entrambi i casi si è trovato con un pugno di mosche in mano.
Stig Dagerman spinge il suo assalto fino alle domande più assolute dell’uomo. Forse è morto troppo presto per darci anche le risposte, o forse questo genere di domande sono ancora insolubili quanto quelle esistenziali, e siamo ancora un esercito di soldati in cerca di libertà e una via di fuga. Ma Dagerman non è un’esperienza di lettura per chi sta cercando un tranquillante, la sua scrittura va esattamente nella direzione opposta. Lo lasciamo dire ancora meglio a lui, attraverso le parole dell’immenso canto di Scriver – contraltare di Dagerman – sul finale del Serpente:
“Per questo voglio rompere tutte le reti da pollaio che la gente ha inchiodato intorno alla propria paura, voglio aprire gli ingressi delle fosse dei serpenti e buttare vetri rotti nelle vasche da bagno di tutti quelli che affermano di avere cercato e trovato la felicità: perché è un’azione crudele perseguire l’armonia quando ci sono tante persone sole nel mondo. In quanto scrittore, quindi, non ritengo affatto che rientri tra i miei doveri tranquillizzare, costruire frangiflutti. Considero invece un obbligo, per quanto è in mio potere, inquietare e abbattere argini.” (Il serpente)
Stig Dagerman non ha scritto per consolarci, semmai per darci un cazzotto, anche quando ci ricorda Il nostro (e il suo) bisogno di consolazione, è così sincero che non può fare a meno di confessare che gli manca la fede, e che la vita è “un vagare insensato verso una morte certa”. Posso starmene seduto davanti al fuoco nella più sicura delle stanze e, all’improvviso, sentire la morte che mi accerchia – scrive Dagerman, ed è tutto qui, in questa frase, lo schianto e l’amarezza dell’essere umano.
Dagerman arrivò al suicido forse per un senso di resa all’angoscia, per il serpente che lo accerchiava, forse per il senso di colpa che lo assalì dopo avere lasciato la moglie Annemarie e i figli per Anita Björk, tra le attrici preferite del grande Ingmar Bergman. Sicuramente Dagerman arrivò al suicido dopo essersi consumato sulla macchina da scrivere, aver scritto quello che aveva da scrivere, e incoraggiatoci a dimenticarlo spesso – come recita la sua richiesta di epigrafe. Ed è così che facciamo, ce ne dimentichiamo spesso di Dagerman, e così gli rendiamo pure omaggio: lasciandolo sotterraneo come un fratello clandestino di Camus, facendolo cadere nell’oblio come tanta parte di umanità. Ma prima di ogni altra cosa, prima ancora di scordarlo, gli lasciamo volentieri abbattere gli argini, terrificarci. Proprio come un serpente.