Con l’uscita, il 26 settembre scorso, di Stella Maris, si chiude la dilogia iniziata con Il Passeggero ma, soprattutto, volge al termine dopo cinquantotto anni il grande viaggio all’interno della letteratura di Cormac McCarthy, deceduto lo scorso 13 giugno.
Questa volta, al centro del libro, troviamo Alicia, la sorella di Bobby ¬ protagonista de Il Passeggero – che, spontaneamente, decide di farsi ricoverare nella struttura psichiatrica che dà il titolo al romanzo. È tutto un discorso diretto, Stella Maris, un dialogo tra Alicia e lo psichiatra che l’ha in cura, il dottor Cohen. Un dialogo che tocca molti temi che l’autore ha potuto sviscerare e studiare nei suoi anni di frequentazione del Santa Fe Institute, dove l’interesse di McCarthy per la fisica, la matematica e la filosofia ha potuto trovare luogo fertile per attecchire e crescere. E proprio di questo si parla, in Stella Maris, di matematica, di topologia, di meccanica quantistica, di Wittgenstein e Schopenhauer. E poi di Bach e, soprattutto, di amore. C’è ovviamente l’amore al centro di tutto. Un amore che sfocia nell’orrore della perdita, che sia quella di un fratello dato per morto o della scelta di abbandonare altri grandi amori, come quello per la matematica o per il violino.
Alicia racconta, e racconta, e racconta. Prima elencando ciò di cui non vuol parlare e poi, invece, parlando proprio di quello, di ciò che ha perso: Bobby e la matematica. Ed è proprio con la matematica che McCarthy regala alcune riflessioni straordinarie fatte uscire dalla bocca della sua protagonista. La matematica diventa la rappresentazione dell’amore di Alicia e dello sgretolarsi del suo mondo, nel momento in cui la perde per una sorta di crisi di fede, nel medesimo periodo in cui perde l’altro oggetto del suo amore più profondo – Bobby. Poi, la matematica diviene la raffigurazione dell’intelligenza. L’intelligenza è composta da numeri, per Alicia, non da parole, diviene un fatto numerico e non è un caso che perdendo la matematica, lei perda ancor più la lucidità. E ogni volta che il mondo “reale” viene meno, ecco che appaiono le sue visioni, capitanate da Il Kid, un nano deforme, sfregiato, con le pinne al posto delle braccia, che accompagna a momenti alterni la vita di Alicia dalla comparsa delle prime mestruazioni. Il Kid non la spaventa, anzi, è una delle poche “persone” fuori dalla matematica a interessarle. Lui, con il suo seguito di personaggi stramboidi, è lo strumento che Alicia usa per mettere in dubbio il mondo, per tentare di decriptare ciò che esiste oltre al visibile.
Se la matematica è l’intelligenza, le sue visioni sono la letteratura – non a caso lei li chiama “personaggi”. In queste regole che Alicia si dà per interpretare ciò che la circonda è evidente come il “bene” siano i numeri, mentre il “male” sia rappresentato dalle parole, dal linguaggio. Il linguaggio è la vera creta su cui McCarthy ha modellato questa dilogia. Inutile dire che Il Passeggero e Stella Maris vadano considerati come un libro unico, ma il ruolo del linguaggio cambia da uno all’altro. Ne Il Passeggero il discorso che McCarthy fa, legato all’uso del linguaggio, si può applicare alla forma romanzo e alla letteratura in generale. Diventa uno strumento narrativo, per raccontare una storia, raccontandone altre al suo interno senza mai perdere il focus della parabola di Bobby Western. E il risultato è strabiliante: nella prima parte del suo lavoro finale, uno scrittore ottuagenario alza l’asticella di cosa si può fare con il romanzo e crea una nuova pietra di paragone per la letteratura americana. In Stella Maris, invece, il linguaggio diventa il protagonista del libro: Alicia fa capire che per lei è una questione centrale e che ha giocato un ruolo fondamentale nella sua scelta di farsi internare in quella struttura, in quanto “perché ci sia pazzia ci dev’essere linguaggio”. In un romanzo così addentro a tematiche di linguaggio e filosofiche, è impossibile non scontrarsi con la figura di Wittgenstein che, infatti, diventa quasi un ulteriore personaggio della storia: Alicia lo tiene sulla punta delle dita e se ne serve con estrema precisione nei suoi dialoghi con il dottor Cohen. Per certi versi, un’operazione del genere, ricorda ciò che fece David Foster Wallace ne La Scopa del Sistema. Il Passeggero e Stella Maris sono, in un certo senso, i negativi de La Scopa del Sistema: c’è sempre Wittgenstein, come nume tutelare di questi lavori, ma mentre il linguaggio, in Wallace, porta a prendere coscienza di sé, ad acquisire realtà e una forma nel mondo, in Stella Maris porta all’apocalisse, alla fine di tutto. Il linguaggio è uno strumento per prendere sì coscienza del proprio io e del proprio vivere ma, dopo che si è acquisita questa coscienza, allora non resta altro da fare che sparire da un mondo concepito come un’entità distruttiva.
Questa volta, McCarthy amplia l’orizzonte dell’orrore che vuole raccontare: non c’è più solo una natura tangibile malvagia e spietata che spinge l’essere umano ad azioni ancor più crudeli, qui c’è il tutto, nel vero senso della parola, a tendere verso il male. A partire dal mondo (“Se dovesse dire qualcosa di definitivo sul mondo in una sola frase cosa sarebbe?” “Sarebbe questo: il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere”), fino ad arrivare all’intero universo che tende al nulla, al vuoto, alla distruzione, sempre più inghiottito da un gigantesco buco nero che porterà alla fine di tutto. È questa differenza di scala nel considerare l’orrore, il primo grande elemento di rottura che questi libri portano rispetto alla precedente poetica che McCarthy aveva consolidato nei suoi romanzi.
Il Passeggero e Stella Maris, per chi scrive, non si possono considerare la summa del percorso letterario fatto da McCarthy. È qualcosa di altro, nel senso di inesplorato. Dell’immaginario di McCarthy sono rimasti il nichilismo portato all’estremo e il western ma in un’accezione diversa: “Western” è il cognome dei due fratelli protagonisti, quasi come se McCarthy volesse sbeffeggiare i suoi stessi tòpoi. Questa volta non c’è natura ma solo il freddo dell’universo che prima o poi spegnerà tutto, da un momento all’altro, facendo click su un interruttore.
In ultimo c’è il sorprendente legame con l’attualità, involontario e come tale tipico della grande letteratura: sappiamo che McCarthy ha lavorato a questa dilogia per anni e anni ed è straordinario vederla uscire in un periodo in cui attorno alla figura di Robert J. Oppenheimer, a causa del film di Christopher Nolan, è tornato a esserci un vibrante interesse. C’è un bel po’ di Progetto Manhattan, ne Il Passeggero e in Stella Maris: il padre dei protagonisti, un fisico, ne faceva parte. Bobby e Alicia hanno passato la loro infanzia a Los Alamos: il loro mondo è nato dove si progettava distruzione. Con alcune pennellate, McCarthy tratteggia l’approccio al Progetto Manhattan del padre dei fratelli Western: un qualcosa di necessario; andava fatto. Il signor Western non ha pentimenti, quello era il suo lavoro. Non si considera un distruttore di mondi. A distruggersi, il mondo, è già abbastanza bravo da solo.