Negli anni ’80, mentre l’Occidente usciva dalla sua fase punk per entrare in quella darkwave, in Siria il Presidente Hafiz al Assad consolidava il suo progetto di reprimere qualsiasi tipo di opposizione al suo potere: c’è una distanza insomma di epoche e momenti tra l’Occidente e il Medio Oriente, da una parte ci si distrae nelle dance hall, dall’altra si lotta nel sangue. E’ il 2 Febbraio del 1982 il giorno che passerà alla storia come il Massacro di Hama. Hama è una città che si trova nel cuore della regione siriana, è la città che ha dato i natali ad Alì Farzat, il vignettista siriano bruscamente malmenato dai servizi segreti di Assad junior e vittima della censura del partito Baath (il partito di ispirazione socialista, in carica dal 1963). A circa 40 km a sud di Hama, c’è Homs, due città che hanno avuto un destino simile in tempi diversi nella storia: è strano come a distanza di trent’anni, quasi nello stesso giorno (stavolta il 3 Febbraio, in una notte straziante) si sia consumata una strage anche nella città di Homs. Una strage di civili, una repressione di stato, ed è come se per trent’anni non fosse mai cambiato niente o quasi. E’ vero il potere ora è passato nelle mani di Bashar al Assad, figlio d’arte dell’ex Presidente Hazif, ma i morti innocenti continuano ad essere più o meno gli stessi, ogni opposizione è repressa nel sangue, e chi si augurava un cambio di linea da padre in figlio è rimasto bruscamente deluso.
I bombardamenti su Hama durarono 27 giorni, l’insurrezione dei Fratelli Musulmani fu repressa violentemente; la repressione ad Homs invece continua ancora, i giorni passano, le temperature salgono ma niente frena la mano dura di Assad. I ribelli, sospinti dal vento di un cambiamento per ora solo possibile, continuano la loro lotta al regime, mentre Assad junior non si piega, aiutato dagli agenti segreti dei Mukhabarāt (che torturano addirittura i parenti dei dissidenti all’estero). Persino negli ospedali (quei pochi che restano attivi nella zona) si compiono le torture del regime, i pazienti vengono incatenati ai letti e percossi da scosse elettriche, ovviamente sono negate cure mediche, acqua, medicinali. Mentre dall’altro lato del mondo, l’occidentale medio va tranquillamente al pronto soccorso tanto per togliersi la curiosità di un malore al petto, ad Homs i feriti spesso sono costretti a trovare una via di fuga verso il Libano, assicurarsi così delle cure, e sopravvivere a ferite, malattie e mancanza di cibo e acqua. Questo è il vero spread, il vero differenziale del mondo post-moderno in cui siamo immersi: il siriano dissidente che lotta fino alla morte per la libertà, costretto a sopportare torture che in Occidente restano inimmaginabili. Del resto l’eroismo in questa parte del mondo è cosa dimenticata, la tortura fa parte solo del vocabolario accademico di esperti di diritti umani, tuttavia resta appena una parola, se ne ignorano le dinamiche profonde, le pratiche, restiamo in disparte a osservare la psicologia del torturato e quella del torturatore, scriviamo vecchi saggi e manuali, e ci impegniamo nella protesta simpatizzando a turno con paesi lontani, seduti sotto qualche ambasciata, eventualmente anche lamentandoci del freddo.
Le prime manifestazioni di dissenso di quella che passerà alla storia come la Primavera araba in salsa siriana risalgono ormai al marzo del 2011: ci troviamo a Sud, al confine con Israele e Giordania, sulla città di Daara spira il vento delle rivolte del mondo arabo, dall’Egitto e dalla Tunisia come un spot virale arriva la rivolta anche in Siria, nonostante l’accesso limitato ad internet imposto da Assad in tutta la regione. E’ colpa di Facebook, è colpa di Twitter, è un complotto di Al Qaeda, un complotto delle forze d’assalto islamiche siriane, o della Cia per alimentare proteste in tutto il Medio Oriente che arrivino fino all’Iran?la realtà è complessa, e le teorie diventano sempre più fantasiose, ogni giorno si aggiungono nuovi dettagli, i giornalisti e i fotoreporter partono alla volta dei paesi arabi per rubare scatti e storie da raccontare da rivendere ai giornali di tutto il mondo, alcuni muoiono, è il caso del fotografo francese Remi Ochlik, ammazzato ad Homs nel febbraio scorso insieme alla reporter Marie Colvin del Sunday Times, ma la lista dei giornalisti che hanno perso la vita è lunga (soltanto in Libia sono stati sette nel corso del 2011), quella di quelli torturati o minacciati o feriti non è da meno (un centinaio di reporter nei paesi interessati dalla Primavera araba). Shoot the journalists ha titolato The Guardian il 26 Febbraio scorso, la strategia di Damasco pare quella di imparare dagli errori degli altri regimi della Primavera Araba, bisogna considerare anche i giornalisti come nemici di una battaglia anche mediatica. Il 26 Febbraio è stato anche il giorno delle riforme apparenti per la Siria con un referendum sulla nuova Costituzione, approvata con l’89,4% dei voti. Col referendum si apre alla possibilità di formare partiti di opposizione anche in Siria, un’apertura di facciata di Assad, con piccole concessioni al popolo per placare la sete di ribellione. In fondo è così che si fa, quando c’è malcontento generale, i regimi tendono ad andare incontro almeno a qualche piccola richiesta, tentando così anche di aizzare la popolazione e le varie fazioni l’una contro l’altra. C’è il rischio di una guerra civile oltre che per una dura lotta rivoluzionaria in Siria? Forse sì, del resto la Siria non è mai stato un paese unito, convivono cristiani e sunniti in questa terra disgraziata.
Spesso guardando alla Siria è in gioco la retorica, la retorica dell’interventismo umanitario, dell’isolazionismo, del laissez-faire, dell’aiuto ai popoli, dello stare a guardare cosa accade; e poi la retorica della diplomazia, delle alleanze, Cina e Russia contro Usa e Europa; la retorica delle infiltrazioni quaediste, del complotto pan-arabico, degli aiuti dell’Iran al regime di Assad, dell’imminente conflitto di cui parlano persino i servizi segreti americani tra Israele e Iran. E’ in gioco la partigianeria, il misticismo, la simpatia e l’empatia della distanza. In tutto questo complesso schema geopolitico, tuttavia, l’unica cosa da non perdere di vista è l’uomo innocente che muore. Ad Hama, come ad Homs, sono state tante le vittime innocenti, vittime che in nome di ideologie, fazioni, religioni, colori politici, eccetera, hanno dovuto abbandonare questo spiazzo di mondo per finire in chissà quale al di là immaginifico. In tutto questo gioco mondiale, lo scacchiere delle alleanze, e la lotta per la libertà, sempre così personale, sempre così intima e diversa in ogni sua espressione, in tutto questo andirivieni di teorie e punti di vista, non dimentichiamoci del sangue versato.