L’ultima volta in cui ho scritto di St. Vincent, la giudicavo colpevole per averci ingannati: sedotti con un album, MASSEDUCTION, che faceva di lei un’altra “star del business-da-silicone-musicale”, e abbandonati su un palco – durante il tour europeo Fear the Future – con uno spettacolo poco incisivo, rispetto a quelli a cui ci aveva abituati. Mi auguravo dunque che tornasse a giocare con noi – i fan, il pubblico – a tiro alla fune, ovvero a riportare quella performance in cui il coinvolgimento tra artista e platea fosse tanto quanto rischioso (a livello emotivo, s’intende).
A quanto pare così è stato. Nel nuovo disco, St. Vincent, o meglio Annie Clark, si spoglia di tutti gli eccessi del precedente – dalla neo-Pop Art delle grafiche à la Toilet Paper Magazine al glamour delle chitarre distorte – e registra una versione solo “Piano & un Microfono” delle stesse canzoni, con Thomas Bartlett. Un nome, quest’ultimo, che necessita le dovute presentazioni: musicista sotto il nome d’arte Doveman, produttore di Sufjan Stevens, Florence & the Machine, Yoko Ono e con all’attivo diverse collaborazioni d’eccellenza nell’ambiente freak newyorkese (una su tutte, Lou Reed). Una sorta di unplugged dunque, ma più minimalista e più intimo: ascoltandolo, ci si sente proprio nella stessa stanza con i due eroi queer.
Anche il suo lancio mediatico ha avuto un iter completamente opposto rispetto al suo predecessore; se per MASSEDUCTION erano state organizzate una conferenza stampa surreale live su Facebook e le interviste-troll disseminate su Instagram, l’annuncio di MassEducation viene dato con una semplice lettera scritta da Annie Clark in persona e poi pubblicata sui social. Su grafia decisamente lineare, si legge che si tratta di una sessione di prove registrata in due giorni nell’agosto 2017 in uno studio di Manhattan, sotto la guida di Pat Dillett. Si percepisce la confidenza tra i due; secondo quanto apprendiamo sempre dalla lettera, Annie conosce Thomas dieci anni fa ed è lui ad introdurla nel mondo dei freak (quelli strani) durante “infinite notti a base di vino e tequila a New York”.
I freak, dicevamo, sono una categoria di personaggi strambi, leggermente fuori dai codici sociali più comunemente accettati – ognuno ne conosce qualcuno in paese o in città – che affollano, in questo caso, le canzoni di St. Vincent.
Slow Disco è il primo singolo che apre le danze e anticipa l’album. Si chiama in realtà Slow Slow Disco, essendo questa la terza versione dell’originale, dopo Fast Slow Disco:
“Le canzoni sono esseri viventi. Crescono, evolvono, cambiano i loro umori e le loro personalità nel corso del tempo.” – recita l’epigrafe d’accompagnamento sui social.
Se Fast Slow Disco potrebbe essere cantata anche da Taylor Swift (pare che sia stata lei a suggerire ad Annie di rendere la canzone più “pop”), questa versione ne restituisce il significato originale: ovvero il senso di alienazione nel sapere di vivere parallelamente la vita che vorresti e quella che stai effettivamente vivendo. Il ritornello principale I am so glad I came/But I can’t wait to leave era stato scritto per l’album del duo Civil Wars ma è finito per diventare uno dei leitmotiv di tutto MASSEDUCTION prima e MassEducation ora.
Savior è il secondo singolo uscito in anteprima e uno dei migliori del repertorio. Suona come una sorta di Heart Shaped Box dei Nirvana: piena di metafore tra sesso (You dress me up in a nurse’s outfit/It rides and sticks to my thighs and my hips) e morte (Love you to the grave and farther/Honey, I am not your martyr) e un ritornello-preghiera prolungato sul primo riff che Annie scrisse a 15 anni.
C’è Masseduction, che è l’ultima canzone ad essere scritta per l’album omonimo e anche la più politica. L’attacco al piano rende questa versione molto più dark rispetto a quella originale, ricca invece di glamour sulle chitarre distorte; sembra quasi la sigla di una di quelle serie americane à la True Crime, tipo The Wire.
Il tocco di Bartlett si sente eccome dato che reinterpreta sul piano le melodie in modo da enfatizzare i testi e la voce di Clark la quale, per chi non lo avesse ancora scoperto, si rivela un’incredibile performer non solo con la chitarra. E dunque molte di quelle canzoni glitterate, come Young Lover, Sugarboy o Los Ageless, diventano delle chicche in perfetto stile newyorkese à la Fiona Apple o Lou Reed (due grandi influenze su entrambi i nostri).
E quindi, ad un anno esatto di distanza, sembra che l’ennesima mutazione di St. Vincent sia completa. Da quando l’ho vista a Utrecht, ha fatto di tutto per portare ogni volta l’adorazione dei fan ad un livello superiore mantenendo quella genuina sincerità che la rende (quasi) umana; in primis, ha richiamato la formazione originale della band – Toko Yasuda (basso e tastiere), Matt Johnson (batteria), Daniel Mintseris (tastiere) – a suonare con lei, rimettendo su quella dimensione strumentale che era mancata nel tour in solo. A questa vanno aggiunte nuove visuals ancora più surreali: i componenti della band vestiti come l’assassino senza volto in Sei donne per l’assassino (1964) e sugli schermi le proiezioni di video firmati dalla direttrice creativa Philippa Price.
Nell’ultimo anno la nostra musicista texana ha inoltre “giocato” con riviste, social media e l’intero show biz del settore della musica – dalle aziende di chitarre (la Ernie Ball), ai programmi di intrattenimento passando per i festival indie (El Cosmico) e i dj-set (sotto il nome di St.Vicious). Ora, dopo aver già presentato alla Cadogan Hall di Londra questa nuova veste minimalista, St. Vincent è ancora più “reale” e io non posso che considerarmi decisamente soddisfatta nelle richieste e ansiosa di rivederla di persona. Fino ad allora, MassEducation farà il resto.
Momento consigliato per ascoltarlo: la sera o la domenica pomeriggio.