In collaborazione con The Sprawler, magazine online di approfondimento e analisi politica (vi invitiamo a leggerlo), scaviamo dentro l’11 Settembre 1973, giorno del golpe del generale Pinochet in Cile. L’approfondimento è diviso in tre parti: la comunicazione ai tempi del golpe, la storia degli eventi, e l’esilio della band cilena Inti Illimani. Un atto di memoria per quello che fu un tragico momento della storia che scosse l’America Latina, con la sua scia di sangue e desaparecidos.
1. La comunicazione ai tempi del putsch
Di Salvatore Maraventano, direttore di TheSprawler.org
9 e 10 a.m. dell’11 Settembre 1973: Salvador Allende, presidente democraticamente eletto del Cile, tiene l’ultimo dei tre discorsi che ha voluto indirizzare al popolo cileno nei momenti concitati e violenti del colpo di stato. Asserragliato nel Palacio de la Moneda di Santiago, non appena chiaro che il putsch avrà successo e che a breve le truppe del Generale Augusto Pinochet entreranno nel palazzo di governo, attraverso i microfoni di Radio Magallanes, Allende si rivolge “alla semplice donna della nostra terra: alla contadina che ha creduto in noi; all’operaia che ha lavorato di più, alla madre che ha sempre curato i propri figli, […] ai professionisti della patria, ai professionisti patrioti, a coloro che da giorni stanno lavorando contro la rivolta auspicata dagli ordini professionali, ordini di classe che solo vogliono difendere i vantaggi di una società capitalista”. Si rivolge “alla gioventù, a quelli che hanno cantato la loro allegria e il loro spirito di lotta, […] all’uomo del Cile, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a quelli che saranno perseguitati” con un discorso che puntando il dito contro i militari che hanno tradito la patria, invita il popolo a “difendersi ma non a sacrificarsi” perché “il popolo non deve lasciarsi sterminare e non deve farsi umiliare”.
Dopo parole di tanta responsabilità, Allende saluta il popolo e decide di immolarsi per la sua democrazia. Morirà quella mattina a Palacio de la Moneda, in circostanze ancora non chiare. Alcuni testimoni sostengono di averlo visto, fucile puntato sulla gola, macchiare di cervella le pareti, ma dell’affidabilità di queste testimonianze ancora si discute.
Nella violenza e nel caos che caratterizzano nel bene o nel male i colpi di stato, una costante è proprio il bisogno dei leader minacciati di parlare al paese e lanciare così un messaggio. La resistenza a molti putsch, infatti, si è rivelata legata a doppio filo con il mantenimento della possibilità di comunicare con il paese. Per la stessa ragione, uno dei primi obiettivi di un colpo di stato sono proprio radio e televisioni.
Durante il tentato golpe spagnolo del 1981, conosciuto come 23-F, il Re Juan Carlos I indossò la divisa da Comandante Generale dell’esercito spagnolo e si presentò in televisione per denunciare il tentato golpe, invitando il paese a sostenere il governo eletto democraticamente. Gli storici, oggi, sono concordi nel sostenere che questo discorso fu una delle principali cause del fallimento del golpe. Fino al momento in cui Juan Carlos I si presentò in tv, infatti, i golpisti non subirono eccessive resistenze proprio perché sostennero di agire nel nome del Re.
Altrettanto determinanti sono stati i messaggi che Erdogan ha lanciato su Face Time durante il tentato golpe del 15 Luglio di quest’anno, nonostante tutti i tentativi dei golpisti di bloccare i social network. Con una frase su Face Time, “Sono ancora io il vostro presidente”, Erdogan ha dimostrato di essere ancora vivo, determinato a mantenere il governo del paese e ha mobilitato l’esercito dei suoi sostenitori, spingendoli in piazza contro le fronde golpiste dell’esercito.
Rimane una differenza fondamentale tra il discorso di Allende e quelli degli altri leader politici sotto attacco durante un golpe. Questi ultimi spingono sempre il popolo a scendere in piazza e a difendere il governo, che sia democratico o assolutistico, legittimo o illegittimo, buono o cattivo. In questo modo, nella storia, di civili ne sono morti a centinaia di migliaia. Salvador Allende, invece, ha fatto quello che né prima né dopo di lui ha mai fatto nessuno: ha spinto il popolo a rimanere al sicuro, a non combattere, a lasciare che fosse solo lui a sacrificarsi, rassicurandoli che “molto presto, si apriranno grandi viali attraverso cui passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore”. E così, dopo troppi desaparecidos, fu.
2. L’Altro 11 settembre
Di Salvatore Marchese, collaboratore di TheSprawler.org
Quella dell’11 Settembre è una data che è passata alla storia per quel giorno terribile di 15 anni fa in cui il cuore dell’Occidente – il World Trade Center – venne attaccato, sancendo così una svolta drammatica nel quadro geopolitico globale e decretando l’inizio di una nuova era.
Eppure la storia ha conosciuto un altro drammatico 11 Settembre, quello cileno del 1973, giorno in cui le forze armate cilene guidate dal generale Augusto Pinochet misero in atto un colpo di Stato militare e assediarono il Palacio de la Moneda, residenza ufficiale del Presidente della Repubblica del Cile Salvador Allende.
Allende si interessò di politica fin dalla più giovane età, partecipando alla fondazione del Partito Socialista del Cile e poi intraprendendo una carriera politica (durante la quale occupò varie cariche tra cui Ministro della sanità, Ministro delle politiche sociali e Presidente del Senato) che culminò nel 1970 quando fu eletto democraticamente Presidente della Repubblica cilena, nel ruolo di politico socialista democratico dichiaratamente marxista. Allende, infatti, credeva fermamente che il socialismo fosse in grado di liberare l’uomo senza necessariamente convertirsi in un regime totalitario e che, contrariamente a quanto si diceva, potesse realizzarsi in modo pacifico per via democratica.
Subito dopo la sua elezione a Presidente, si accinse a portare a compimento il suo programma di riforme socialiste che presero il nome di Revolución con empanadas y vino tinto (rivoluzione con empanadas e vino rosso). Le sue riforme riguardarono tutti gli ambiti più importanti della vita politica, economica e civile del Cile: in campo economico avviò un programma di nazionalizzazione (leggi anche statalizzazione economica) delle principali industrie private (dalle miniere ai trasporti) e delle banche, intraprese una coraggiosa – sebbene dispendiosa – politica sociale, indirizzando la spesa pubblica verso l’istruzione, la sanità, le strutture abitative, con lo scopo di migliorare il tenore di vita delle fasce più deboli della popolazione, soprattutto contadini braccianti o piccoli imprenditori rurali e indigeni mapuche. In campo politico si adoperò per laicizzare la società e incrementare il livello di istruzione dei cileni al punto che l’università divenne un sistema quasi completamente sovvenzionato dallo Stato.
La sua breve ma densa esperienza politica come Presidente fu sin dall’inizio pesantemente osteggiata dall’establishment politico statunitense per diverse ragioni: dal punto di vista geopolitico e ideologico, nel 1970 si era in piena Guerra Fredda, il quadro politico mondiale era condizionato dall’antagonismo tra le due superpotenze di allora, ossia gli Stati Uniti, che guidavano il blocco occidentale – fondato sul democrazia e su economia di libero mercato – e l’Urss che guidava il blocco orientale – fondato su comunismo e economia centralizzata di piano.
In considerazione della posizione strategica dei paesi dell’America latina, gli Usa non guardavano affatto di buon occhio un uomo politico socialista come Allende poiché temevano che il Cile potesse entrare nella sfera d’influenza del “nemico sovietico”, la cui espansione andava contenuta e limitata in conformità con l’ideologia elaborata ai tempi della presidenza Truman. Evocative sono, a questo riguardo, la “teoria del domino” e “ l’infezione della mela marcia”.
Dal punto di vista economico gli USA avevano forti interessi in Cile, dove operavano diverse aziende multinazionali nordamericane, per cui l’amministrazione statunitense, sotto Nixon, non nascose la sua opposizione ad Allende – anche prima che fosse eletto Presidente – e tentò quindi in vari modi di destabilizzarlo e rovesciarlo attraverso il finanziamento ai partiti politici avversari, prima, e, sebbene sia ancora controverso, l’appoggio al colpo di stato (come previsto nei piani Track I e Track II), poi.
Nella consapevolezza che ogni memoria storica è frutto di una ri-scrittura politica e di un’appropriazione ideologica del passato alla luce delle esigenze del presente, pesa come un macigno l’ultimo discorso fatto da Allende al popolo cileno, per mezzo radio Magallanes durante l’assedio dei golpisti al Palacio della Moneda, in cui si consumarono le sue ultime drammatiche ore di vita a cui egli stesso pose fine suicidandosi.
Forse l’eredità più significativa sta proprio nelle parole che Allende rivolse al suo popolo; parole fatali, pesanti come piombo, cariche di amore per gli uomini cileni e per il proprio Paese, in cui risuona la speranza, o meglio la certezza della fede nella possibilità di costruire una società migliore, una società democratica e più egualitaria. E non si tratta di pura propaganda agiografica pronunciata da un santo martire, bensì di un’eredità intellettuale, morale e politica trasmessa attraverso il sacrificio politico e umano della vita stessa; una vita di impegno e di lotta che, nelle sue luci e nelle sue ombre, oggi più che mai è necessario riscattare da un ingiustificato oblio o da un’immeritata considerazione storica e soprattutto mediatica rispetto al più noto 11 settembre 2001.
3. Gli Inti Illimani dell’esilio
Di Giorgia Valenti, collaboratrice di TheSprawler.org
È l’11 settembre 1973 quando la notizia del golpe e della scomparsa di Salvador Allende raggiunge gli Inti Illimani dall’altra parte del globo, a Roma, durante un tour nel continente europeo. Da lì a poco il corpo di Victor Jara sarebbe stato trovato martoriato da 44 colpi di pistola, il triste principio di quel silenzio che contraddistingue gli anni di Pinochet: gli anni degli arresti, gli anni delle torture e dei crimini contro l’umanità, gli anni dei desaparecidos.
È così che inizia il loro successo in Italia, ovvero con la solidarietà di un popolo ospite che si ritrova ad accogliere un gruppo di origini lontane, quasi mistiche. Dopo l’arrivo della notizia sugli avvenimenti accaduti al Palacio de La Moneda di Santiago de Chile, gli Inti-Illimani cercano disperatamente una radio e lì cercano un appiglio, nella speranza che la notizia della caduta del regime arrivi presto (ci sarebbero voluti, invece, quasi vent’anni). Il 1973 è anche lo stesso anno in cui il gruppo cileno smette di essere il gruppo musicale studentesco nato in seno all’allora gratuita Universidad Técnica del Estado, segnando così la fine di una fase e l’inizio della maturità professionale e musicale.
Identità e folclore latinoamericano, impegno sociale e militanza politica sono gli ingredienti di quel movimento noto come Nueva Canción Chilena, gli stessi che vengono a mancare nei lunghi anni dell’apagón cultural (letteralmente “spegnimento”): una scarsa produzione e circolazione di opere artistiche (esplicitamente definite come non prioritarie del progetto politico pinochetiano), invadente influenza statale nella produzione artistica del paese, una parallela repressione e censura degli oppositori. Riecheggiano lontane, dunque, le note che avevano fatto da sfondo alle voci di operai e di nuovi gruppi sociali, che vengono così ridotte al silenzio insieme agli artisti che le avevano prodotte.
Un esilio forzato costringe dunque gli Inti Illimani, (così come i fratelli Parra, i Quilapayun e altre numerose voci appartenenti al movimento della Nueva Canción Chilena) a proseguire la loro opera all’estero, lontani dal loro paese in cui qualche anno addietro si erano affermati come gruppo musicale portavoce dell’Unidad Popular di Salvador Allende, sia prima che dopo la vittoria alle elezioni presidenziali del 1970.
“È importante che la massa antifascista, che costituisce circa l’80% della popolazione, faccia sentire la propria voce. La massa antifascista deve cantare il proprio dissenso, con gli stessi strumenti proibiti dalla giunta militare.”
La delusione, il dolore, la nostalgia, la voglia di riscatto muovono il gruppo nella produzione (già copiosa) di nuovi album, e in particolare del brano Vuelvo, dove le voci dei cileni costretti all’esilio in Europa e in altre parti del mondo si uniscono per esprimere la nostalgia del proprio paese, della propria casa, dei propri affetti. Un sentimento che accompagnerà i musicisti (e i cileni tutti) fino al 1988, quando le frontiere del paese vengono aperte a seguito della crisi alla quale il governo Pinochet stava andando incontro e che – da lì a due anni – avrebbe portato al referendum e alle elezioni, mettendo un punto a 15 anni di dittatura.
Insieme alla democrazia, dunque, quell’anno varcano la soglia di casa coloro che, a partire dagli anni 60, erano stati i rappresentanti dell’identità americana, sperimentando l’unione di strumenti tradizionali, di un linguaggio folclorico e di nuovi sound. In aeroporto, ad accoglierli, milioni di fan.
“Vuelvo al fin sin humilliarme, sin pedir perdón ni olvido.”
[Torno, sì, senza umiliazioni; senza chiedere né il perdono, né l’oblio]
Appendice
«Tutto quello che ho scritto è una lettera d’amore e un saluto alla mia generazione, a quelli che hanno scelto la militanza e la lotta e che hanno dato quel poco che avevano, la giovinezza, a una causa che per noi era la più generosa del mondo. L’intera America Latina è seminata con le ossa di questi giovani dimenticati». Roberto Bolaño