Specchi, pt.7.

VII.

Lascio troppi soldi al tassista, come per scusarmi del fallimento dei suoi tentativi di parlarmi. Ho passato tutto il viaggio schiacciandomi al vetro, muto, con il respiro che appannava ciò che guardavo e che aveva il sapore dolciastro della fuga. Quando apro la porta di casa c’è un messaggio in segreteria, è di Celine, che mi prega di richiamarla, per avere il mio numero di cellulare. Non lo do mai, perché evito la delusione di non essere cercato. Le mando un messaggio, dicendole che sarà dura addormentarsi, lei mi risponde all’istante: «Sapevo che eri tu». Il mio cuore batte, ma non è lo stupido sfarfallio dell’innamoramento giovanile, è l’avvertimento che questa cosa mi ucciderà, che dovrei non farlo, buttare la scheda, cambiare casa e faccia, nascondermi e continuare la mia tranquilla routine, che non era poi così male, se l’alienazione è un valore. Un giorno Sal mi disse che le cose sarebbero cambiate, che non poteva continuare così. Che per quanta merda c’era nel mondo noi saremmo riusciti a scansarla e andarcene da qualche parte da soli. Nessuna montagna in giovinezza sembra impossibile da scavalcare. Fuggire? Gli chiedevo spesso, lui perentorio, con lo sguardo di chi sa come funziona la realtà, mi rispondeva che fuggire non è una soluzione se lasci qualcosa, ma se non lasci nulla è il solo modo per sopravvivere. Così facevano i romani, per questo nelle vittorie non lasciavano nulla di intatto, gli sconfitti sarebbero stati troppo impegnati a ricostruire per andarsene e Didone avrebbe continuato a guardare il mare senza muovere guerra contro di noi. Io ho sempre creduto a Sal, forse troppo, ma me lo sono perdonato da tempo.

Sarà impossibile domani andare al lavoro. Dovrò convincere Mizzy di essere malato, non mi crederà, aggiungerà questo alla lunga lista di favori che crede le debba, non importa, cercherà di amare quel gemellino della riunione se sarà ancora davanti ad una scrivania. Ho un certo tipo di assicurazione sul mio posto, dettata dal fatto che ho lanciato uno dei libri più importanti e su cui vive ancora il posto in cui lavoro, che mi rende una sorta di privilegiato, intoccabile da certe questioni, quasi geniale per alcuni, riconosciuto in tante città, per cui non so come lavare ancora la mia coscienza. Non ho mai ucciso nessuno, forse però sto uccidendo me stesso. I sensi di colpa sono ciò che ti rende adulto, non appena avrai qualcosa per sentirti in dovere a qualcuno, e lavorerai per superare questo complesso, allora sarai pronto per una famiglia. La figura del padre frustrato non si distacca molto da questa idea, perché è lontano dal periodo di egoismo in cui ogni cosa ti è concessa e, se superi una certa età, il tuo marchio è inevitabile. La parola maturità non è altro che un legame contro chi ha capito che l’esistenza la possiede soltanto l’individuo che la vive, i suoi bisogni sono sempre rivoluzionari perché contro il bene di qualcuno.

Quando Sal e Celine iniziarono a frequentarsi, e il tempo dedicato a me iniziò a ridursi, io diventai geloso. Sal se ne accorse e decise di condividere quello che aveva. Lui sì che era un buon amico. Non era uno di quei personaggi con dietro una vita tempestosa, di povertà o di maltrattamenti, era come molti altri. Era nato così, costretto ad assumere su di sé ogni dolore, senza saperlo e senza averlo mai saputo. Fu la decisione più saggia che un uomo abbia mai preso, alla stesso modo di Mosè con le tavole della legge, mostrò a me e Celine, la sua personale divinità, quella dell’essere giovani. La pura idolatria del momento. Ne erano passate altre di ragazze ma Celine era l’unica che riusciva ad occuparci il tempo. Quando scattammo quella fotografia ci aveva portato a vedere l’oceano per la prima volta. Eravamo così sconvolti che la prima scopata ci sembrò senza valore. Lui guardava il mare in un modo così intenso che ci vennero le lacrime agli occhi. Celine fu l’ancora che ci portò alla terra ferma ma che allo stesso tempo ci fece affondare. Nel caos ci sono sempre due facce, l’irrimediabile della vita e la distruzione di tutto, per ognuno di noi fummo quel caos.

Illustrazioni a cura di Alessandra Zecchetti

Tengo pochi alcolici in casa mia, per evitarmi la tentazione di mettermi a bere da solo per prendere sonno, per non ricadere in una delle tante dipendenze che uccidono il mondo. Questa sera però penso di meritarmi uno scotch e anche una sigaretta. I vecchi tempi tornano sempre con le cattive abitudini. I miei occhi sono stanchi, il mio cuore è come se avesse smesso di battere. Non si è mai preparati al riaffiorare di certe ferite, non avendole volute non le puoi combattere, perché il tuo mondo è fermo lì, che tu ne costruisca uno nuovo o meno, le sue fondamenta appoggiano sempre sullo stesso nervo. E mi sentivo davanti a quello specchio, di nuovo, la mia barba allora era incompleta, come a presagire una vita destinata alla falsità e alla solitudine. Il mio sguardo vuoto, la mia necessità di bere e di dimenticare. Un buco dentro difficile da colmare, per chiunque, ma ero il solo a viverlo in quel corpo, tra tutti i buchi di cui è composto il pianeta. E Celine, ora, tornata a riaprirlo. C’era silenzio a casa dei miei quel giorno come ce n’è ora nella mia. Una casa felice ha i muri che cantano, indipendentemente da chi ci sta dentro, per questo le scegliamo ad istinto, anche se non possiamo permettercerle, e le riempiamo di mobili che ci comunicano qualcosa. Ci ho provato una vita a sentire quell’inconscio stimolo a prendere cose che mi rispecchiassero. La verità è che ho paura di quello che potrei vedere nel loro riflesso. E, ora, non posso fuggirlo.

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