IX.
Suonavano gli Interpol nella stanza, l’aria era densa, le nostre sigarette coprivano il sole che entrava dalla finestra, Celine stava dormendo sul letto, io e Sal stavamo rollando l’ennesimo noioso spinello, davanti a noi due Bud mezze vuote che riflettevano la luce febbrile del passaggio dall’inverno alla primavera. «Ci ha mai pensato? Dopotutto non saremo mai eterni», mi dice Sal, il suo sguardo è pieno di mistero, ma non di segreti. Io non riesco a parlare, più perso nelle sue parole che nei miei polmoni. «Certe volte mi ritrovo così, bloccato, davanti allo specchio, che non so più chi sono. I riflessi ti feriscono quando vedi quello che c’è davvero. Stiamo cambiando, troppo velocemente, nulla sembra avere più senso. Forse stiamo solo crescendo, e la vita dei pazzi ha sempre una durata più breve. Ma non so quanto ci convenga». Mi dà una pacca sulla spalla, il suo sorriso fraterno e quel senso di smarrimento che nessuno gli avrebbe mai potuto far dimenticare. Ha una camicia di jeans sbottonata, senza pantaloni, le gambe lunghe che si irrigidiscono ad ogni movimento involontario. Guarda Celine, come chi sta per partire per un lungo viaggio al fronte e non sa se tornerà. Le giovani stelle sono i soldati della vita, pronti a morire per conquistarsi la propria indipendenza, e spesso non ritornano davvero più, persi, menomati, nelle curve di una vita che si scontra con la realtà e non lascia spazio ai prigionieri di se stessi. «Ho paura che tutto questo possa scapparci dalle mani, che si disgreghi come statue di sale al sole degli altri, che questa camera si dimentichi di noi, che questi muri possano ospitare un ragazzino ancora pieno di brufoli e illusioni e rovini questa atmosfera così decadente. Un giorno la mia mano poserà quella penna e anche i fogli non avranno più significato, non riuscirò più ad evadere, e sarà tutto perso, perso per sempre». Mentre gli Interpol cantavano Roland, dagli occhi di Sal uscì una lacrima, una lenta e pesantissima singola lacrima di dolore. Avevo già visto piangere Sal, ma era sempre per la gioia, quella volta era diverso, così tagliente che scavò un segno nel mio cuore indelebile e mi lasciò vuoto, come per una strana osmosi. L’empatia è solo una stronzata, di chi è troppo stupido per sentire qualcosa e cerca di farselo passare, il dolore è sempre solitario, può essere simile, ma è troppo personale per poterlo abbandonare ad un altro. Fu l’ultima volta che vidi Sal, pochi giorni dopo venni a sapere da un’amica di Celine che si erano lasciati, lui non rispondeva già più alle mie chiamate, io pensavo soltanto fosse un periodo così, ma quanto mi sbagliavo. Sottovalutiamo così tanto i sentimenti degli altri che finiamo per essere sconosciuti. Ma forse non avrei potuto fare altro. Era già una settimana che non sentivo Sal, stavo preparando un esame e cercavo di non pensarci, non eravamo mai stati così separati.
Pioveva quel giorno, mia madre entrò in camera mentre fumavo, la sua faccia pallida in forte contrasto con il tailleur del lavoro e il rossetto rosso fuoco sono immagini che non dimenticherò mai. Mi disse di andare al telefono, che cercavano me. Vorrei tanto non aver preso quella telefonata, essere stato in un altro paese, in un’altra vita, non capire più la mia lingua madre. Era l’ospedale, una anziana infermiera mi disse di correre subito al pronto soccorso, che era per Sal. Da lì i miei ricordi si fanno sempre più sfuocati, forse perché ho cercato una vita di dimenticarmi quel periodo così felice, per poter vivere ancora e senza confronti col passato. Mi ricordo il suono delle ambulanze, i passanti e le loro facce tristi, Celine cadaverica e in lacrime, e la mano immobile di uno scrittore bruciato dalla condanna del talento e da una solitudine che non riusciva ad eliminare e che lo condannò a morire solo. È fondamentalmente ingiusta la vita degli uomini, quell’impossibilità di fermare un momento, poter capire che è importante quando lo stai vivendo e non soltanto dopo, quando è già troppo tardi. È fondamentalmente ingiusto il fatto che un figlio nasca e poi ti tradisca, che ognuno abbia quel momento felice e che lo butti via come meglio crede. È fondamentalmente ingiusta la divisione dei talenti, del luogo in cui nasci e della famiglia che ti ritrovi. Perché io? Perché non lui? Eppure ad ognuno la sua maledizione, e il suo momento di dolore, sembra che siamo fatti per compensarci e, nonostante questo, siamo i primi a voler condannare qualcun altro alla stessa sorte. Non so perché sia toccata a lui, che forse meritava più di me, sobbarcarsi il dolore di un mondo che a stento comprende se stesso e per te non ha di certo tempo, del resto siamo bravi a raccontarci bugie, chi non lo fa è destinato a volere sempre di più, a non essere mai sazio, e finire per morire di fame. Come le parole che si formano senza pensarci, che se fossi uno degli eroi del mio passato me ne uscirebbero di migliori, e invece devo accontentarmi dei miei singhiozzi. È stato allora che ho compreso la vacuità della vita, il fatto che siamo soltanto comparse, che siamo destinati ad ammazzarci da soli. Ed è stato il suo gesto a rendermi libero. Al suo funerale non c’era praticamente nessuno, solo la pioggia e gli ombrelli aperti, mi piaceva pensare che in tutto il mondo ci sarebbe stata una lacrima e una persona sotto la pioggia per lui, a rimpiangerlo. E, invece, l’unica cosa che feci fu seppellire ogni cosa, con il suo corpo, le mie speranze assieme alle sigarette. Provare a dimenticare. Me stesso, lui e quei giorni meravigliosi. Ma certe cose ti marchiano più a fondo di una promessa e non puoi mai dimenticarle, finché non ti ci abitui e, allora, tutto riprende a scorrere. Anche le sue parole saranno dimenticate, come i nostri specchi. Per lui, per me, per voi, per tutta la nostra merdosa società, fra qualche secolo, non rimarrà che lo sbuffare di un ragazzino delle medie, costretto in casa a studiare storia quando fuori c’è il sole, i nostri rimpianti invece, non possiamo che viverceli, ora. Qualche mese dopo mi chiamò la madre di Sal, io cercavo di lasciare scorrere il flusso della vita, abbandonando i miei capelli, le dipendenze e tutto quello che era morto con lui, Celine non la vidi più, non la cercai, non risposi alle sue chiamate. Sal, prima di decidere di andarsene, mi lasciò un suo manoscritto, come ultimo suggello della nostra amicizia e del nostro mondo. Avevo già letto qualche estratto che mi aveva passato, ma non era ancora ultimato. Pare che in quei giorni di abbandono Sal avesse ricopiato ogni suo appunto e l’avesse finito, c’era il suo odore sui fogli battuti a macchina, delle sue sigarette, le macchie di vino impresse dalle sue impronte. Come se fosse il testamento di una vita consacrata ad un Dio malvagio di cui essere debitore. Non avevo mai letto qualcosa del genere.