IV.
Il fatto è che siamo fatti per soffrire, sopportiamo molto più dolore rispetto al peso che possono sollevare le nostre braccia o i chilometri che possono affrontare le nostre gambe, il nostro corpo reagisce ogni volta e la soglia si alza sempre di più. Una volta mi hanno raccontato la storia di un brahmino che per dimostrare come il dolore fisico fosse nulla rispetto a quello interiore si fece tagliare un piede e, lui, non fece una smorfia, neppure mentre si stava dissanguando. Dicono che nei padiglioni dei malati terminali si sentano molte più risate che lacrime, perché si arriva ad un punto in cui il dolore è tale che lo accetti. Quando ero piccolo vomitavo circa una volta al giorno, stress infantile o sociopatia neo natale dicevano i medici, io mi c’ero così abituato che riuscivo a far coincidere i conati con il ritornello della mia canzone preferita, oggi riesco quasi a recitare un passo dell’Inferno nell’attesa. Per questo ha così tanto in comune con l’amore, capita all’improvviso e finisci con l’abituartici solo che, il dolore, è sempre sincero con tutti e non risparmia nessuno. Alla festa ci sono sempre le solite persone, qualunque ambiente tu sia uso frequentare, hanno solo delle facce differenti ma i personaggi sono sempre gli stessi, un cerchio che si chiude. C’è l’escluso, che mi è davanti e che fissa con sguardo vuoto il bicchiere tra le sue mani, nascosto nella sua bolla di timidezza, credendo che nessuno lo possa notare. C’è l’anima della festa che in questo momento sta dissacrando la padrona di casa, facendola ridere sguaiatamente, con un suono che fa tremare i cristalli, ma quelli veri non crepano mai, le nostre orecchie così abituate a recitare invece soffrono e automaticamente ti fanno venire fuori il sorriso. Ci sono i bevitori, gli intrusi, gli sconosciuti, quelli che ci sono sempre e quelli che vorresti mancassero, io tra questi ultimi. Il padrone di casa è un vecchio amico dell’università, scopro, di quelli che si sono fatti i milioni alle spalle dello stato ma che sono diventati così preziosi da non poter finire in prigione. Il suo vestito è di quelli su misura, con ancora le lacrime del sarto che scendono dagli spilli, perché sa che la sua creazione non indosserà altro che manichini. Mi saluta con parsimonia, è sorpreso di vedermi dopo tutto il tempo che è passato, quasi riesce a sentirsi in colpa per non avermi mai ringraziato abbastanza, avendogli fatto conoscere sua moglie che prima era la mia ragazza, anche quando si scopavano già. Non sono particolarmente misantropo o misogino, ho avuto la sfortuna di conoscere soltanto persone sottili come l’asta su cui hanno sventolato una vita, io per primo, e le nostre valutazioni sugli altri sono sempre un confronto, positivo o negativo, con noi stessi. Non c’è ancora nessuno di interessante e l’unica cosa che posso fare è bloccarmi alla vetrina degli alcolici, c’è pure un ragazzo che ti guarda con faccia accattivante, imparerà presto quello che dovrà servirmi, anche perché ci passerò parecchio tempo, come ho già detto non ho intenzione di tornare a casa o, almeno, di ricordarmelo. Con il bicchiere fra le mani mi aggiro per la casa, qualcuno ride sulla terrazza che si affaccia su quello che doveva essere un campo ed ora è un parcheggio a più piani. Salgo le scale, appese ai muri ci sono le foto della coppia sulle spiagge di tutto il mondo, davanti alla Tour Eiffel o su un palazzo a Dubai. Avere dei conoscenti ricchi è come sfogliare una rivista di moda, o una di viaggi, sai sempre dove non devi andare. Quando arrivo sul terrazzo ci sono due ragazze che si parlano, interrompono la conversazione quando mi vedono arrivare ma riprendono senza degnarmi di uno sguardo. Sono giovani, i denti bianchissimi, la bionda indossa una camicia, la sua amica un tubino alla moda, il trucco leggero della prima ragazza mi rapisce, ma non mi è nuovo, non riesco però a ricordarmi perché. Mi appoggio alla ringhiera, il ghiaccio sbatte contro le pareti del bicchiere, le loro voci mi raggiungono in sottofondo, nella casa inizia a sentirsi un po’ di musica e il rumore delle voci aumenta, l’alcool mi riscalda le gengive, ma è tutto quel che sento. Non c’è eccitazione, stringo le mascelle che mi disegnano un’ombra sul viso e tirando la pelle mi fanno bruciare quel maledetto taglio, non sento dolore, il mio sorriso è vuoto e non ha parole, qualcuno direbbe quasi beffardo, un mio vecchio amico diceva che certi aspetti non si tolgono dalle facce che si incontrano, rimangono lì, bloccati, dall’infanzia alla vecchiaia, come un tatuaggio che non si può togliere. Quel mio amico si è dimenticato di dire che le persone quei segni li vedono e, come giudizi, non cambiano mai. Una delle due ragazze scende per prendere da bere, siam