Specchi, pt.3.

III.

Te lo sei chiesto stamattina anche tu vero? Davanti allo specchio, magari avevi pure le occhiaie perché ieri hai fatto serata e ti sei sentito vivo. Eppure non ti ricordi quasi nulla e, allora, ti sei domandato chi c’era al tuo posto, nel tuo corpo, a sbavare dietro le minigonne delle ragazzine in cerca di accompagnatore. Forse c’ero io o magari non c’era nessuno, per fortuna da sbronzo dimentichi di guardarti e non sai che faccia avevi. Quando ritorno a casa, accendere la luce, mi ricorda che un’altra giornata è finita, appoggio la cartella di quella donna sul divano, senza prestare troppa attenzione al suo contenuto, non so che farmene e non la richiamerò, quello che potevo avere me l’ha già dato senza neppure troppa resistenza e le cose facili, si sa, piacciono soltanto ai matrimoni. Mi tolgo la camicia, ancora sporca e con un lontano odore di donna, dovrei bruciarla, non si sa mai che qualche cavaliere orgoglioso voglia riprendersi quel profumo e, poi, non mi è mai piaciuta. Ci teniamo tanto a fare i cattivi, per preservare l’onore, che poi è la maschera dietro cui nascondiamo ciò che più abbiamo paura di perdere. L’essere uomo ad esempio, quella stronzata della virilità, che ti dice come ti devi comportare per fare parte di una bella tavola apparecchiata alla cena della società militare. A me, le cene di quel tipo, tutte composte e piene di interessi, mi hanno sempre dato l’impressione che ci si cibasse di idee piuttosto che di realtà, per questo non mi sono mai sforzato tanto per apparire un buon commensale. Forse perché le donne più belle che ho incontrato, con un briciolo di autostima, le ho viste sempre sposarsi con delle mezze checche, poi li tradivano, ma l’amore non bada al letto in cui dormi, e sono sempre i più disposti a perdonare, perché accettano di diventare schiavi senza per questo picchiarti. C’è chi per darsi un tono si compra la casa al mare, impara il francese o segue un corso di fotografia, per cercare negli occhi degli altri la conferma di essere importante, come chi va in palestra per scopare, ognuno ha bisogno di un’aspirazione in se stesso, sennò a forza di vomitarsi si trova anoressico nel cuore e a nessuno piace sentirsi dire che sei cinico.

Illustrazione a cura di MariaElena Bissoli

Quando comprai il posto in cui vivo ora diedi una festa, neanche a dire la razza media della gente che ci si poteva trovare, c’era un piccolo bar da cui servirsi, un paio di regali portati da chi non mi ricordo, e tutti gli occhi pieni di giudizi, a valutare la posizione del divano, a confrontare la stampa del loro Dalí con un quadro che feci quand’ero bambino, tutti alla disperata ricerca dei difetti o della ragione per cui li avessi invitati. Ognuno eletto a giudice, ognuno col suo sorriso a godersi la serata. Io cercavo soltanto la conferma di essere solo, nessuno lo notava e ognuno mi diceva che avevo fatto un affare per i mobili, che il colore dei muri si intonava perfettamente allo stile minimale, che le finestre sulla città erano uno spettacolo unico. Qualcuno ruppe un bicchiere e io, guardandomi tra quei cocci, capii che davvero in quella casa non ci sarebbe mai stato nessuno, se non la disperata ricerca dell’ennesimo uomo nel sentirsi parte di qualcosa, per poi ritrovarsi frammentato tra i propri ricordi. Siamo una razza strana, noi uomini, cerchiamo di fingerci altro per poi risultare soltanto noi stessi, dei padroni di casa che hanno un indirizzo ma non una proprietà, qualcosa da mostrare ma mai nulla da tenersi, e le nostre feste sono soltanto esibizioni di quello che avremmo voluto essere e non abbiamo mai raggiunto.

Alla porta c’è il ragazzo cinese che, ogni mercoledì, mi porta la cena, con la sua faccia nascosta dietro gli occhiali da nerd e la puzza di fritto che non se la toglie nemmeno passando una vita sotto la doccia. Fare la sauna con lui dev’essere come entrare in un fast food e sentirsi il piatto di un obeso affamato. Il suo sorriso, di chi ti ha sputato nel piatto e te lo vende come il più buono del mondo, è quello di un cane che aspetta la mancia, se avesse una coda scodinzolerebbe, dopo avermi pisciato addosso. Gli lascio qualcosa, non ringrazia, come se fosse un dovere il mio, in realtà è il suo tempo quello che viene abbandonato al padre che di sicuro possiede il ristorante e se ne frega pure del rifiuto umano che ha generato. Si fumerà uno spinello pensando ancora allo sputo, ridendosela di gusto alle mie spalle. Io, intanto, l’ho già buttato via. Mi suona il telefono di casa, abbastanza a lungo per sentire la mia voce nella segreteria che invita chi telefona a non lasciare messaggi, che tanto sono in casa e non lo ascolterò. Qualcuno dall’altro lato mi invita ad una festa, dicendomi che ci sono ottime prede ed è tutto offerto dal padrone di casa, uno che probabilmente era stato alla mia personale inaugurazione. Chiamo un taxi, domattina arriverò al lavoro in ritardo, spengo il riscaldamento, cercherò di non tornare a casa, il silenzio dopo un po’ mi annoia. La prima volta che mi sono visto allo specchio devo avere avuto circa vent’anni, studiavo ancora all’università e non sapevo cosa fare nella vita, me la prendevo comoda, i miei avevano i soldi che servono e non c’era bisogno di avere fretta. I miei compagni già erano assunti in qualche studio, già pubblicavano delle cose loro ed erano già passati dagli spinelli alla coca, il prezzo del successo lo paghi sempre perdendo la tua sanità mentale ed è una droga che fatichi a dimenticarti, perché ne hai bisogno soprattutto quando non ce l’hai e l’hai sempre voluto avere. Perché la verità è che pensiamo che facendo le stesse cose di una biografia famosa il passo verso il dimenticatoio si rallenti, il tempo per avere una personalità lo perdi quando alla prima festa senti che non sei più protagonista. Io a vent’anni, davanti a quello specchio, ho iniziato a giocarmela, perché tutti, inevitabilmente, siamo tossici di qualcosa.


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Capitolo 2

Capitolo 1

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