Un viaggio attraverso i suoni e le storie di Napoli, la prima di tre parti di uno speciale che racconta la musica di una città – dal jazz di importazione americana agli anni Ottanta, e alla cultura underground.
Ernesto Razzano è autore di Firenze lo sai, suo primo romanzo uscito per Edizioni 2000diciassette. Scrive di musica per magazine e periodici ed è fondatore del Morgana Music Club di Benevento.
“Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. Napoli è l’altra Europa.” Curzio Malaparte, La pelle
La nottata era passata. Il suono delle sirene che preannunciava imminenti bombardamenti finalmente non si sentiva. Le corse nei rifugi, sottoterra, non scandivano più le giornate di migliaia di persone che in quella fuga abbandonavano cose e persone care senza sapere se le avrebbero riviste. Furono anni tremendi, la guerra aveva cambiato faccia rispetto al passato. Da Guernica in poi, non si combatteva più solo al fronte, in trincea o in campo aperto, ma si bombardavano le città, senza nessun riguardo per la popolazione civile. Napoli fu la città più colpita e martoriata dai raid, dalle incursioni aeree distruttive degli Alleati prima e dei nazisti poi, pagando uno smisurato tributo di morte. Ma Napoli fu anche la prima tra le grandi città europee a liberarsi, guadagnandosi la medaglia d’oro da appuntarsi su un petto fiero e malconcio. Si provava a diradare quella polvere difficile da scrostare, venuta giù dal crollo del Monastero di Santa Chiara e di un numero infinito di palazzi e altre costruzioni. Quella polvere salita al cielo era ricaduta su ogni cosa. Per l’importanza strategica del suo porto, soprattutto verso le rotte mediterranee e africane, Napoli era un bersaglio imprescindibile, in ogni momento del conflitto per tutte le parti in causa, secondo il periodo. Verso la fine della guerra inoltre era anche la città strategicamente più importante per la risalita delle truppe Alleate sbarcate a sud, a Salerno oltre che in Sicilia.
Ma la musica stava cambiando, in tutti i sensi, fortunatamente. Le radio, che, ricordiamolo, nascono come strumento di raccordo e comunicazione a uso militare, cominciano a diffondere finalmente anche musica, non più e non solo comunicazioni e bollettini di morte. E l’aria, al posto degli improvvisi e interminabili vagiti delle sirene e delle esplosioni da polvere da sparo, comincia a riempirsi delle voci melodiche dei cantanti che sembrano voler fare voltare pagina a tutti. Ma oltre a quelle voci, che sembrano infondere un po’ della calma pre-bellica, arrivano anche nuovi ritmi americani, maggiormente volti allo svago, all’intrattenimento e a una potenziale leggerezza capace di diradare pian piano quella polvere poggiata sulle profonde ferite aperte, non ancora trasformate in cicatrici, che deturpavano e stravolgevano l’antica fisionomia delle strade e dei quartieri.
Napoli era un neonato, ma un neonato speciale, perché aveva un passato, e per giunta importante, che non poteva essere cancellato dalle tonnellate di bombe che l’avevano sfigurata nel corpo e nell’anima. La nottata era passata e nella luce della nuova alba, che mostrava le macerie, bisognava ripartire quasi da zero.
Gaetano e Mario, invece, sono due neonati veri, in carne e ossa, che vedono la luce sul finire del conflitto e saranno molto importanti per questa storia che stiamo raccontando. Ma mentre loro crescono anche la città comincia a prendere una nuova forma.
Le risate e le chiacchiere nei vicoli hanno un accento diverso, non più nemico. Quella ritrovata leggerezza preludeva a una contaminazione di culture diverse possibile solo con le bandiere ammainate e i nazionalismi in ritirata. Gli Alleati presidiavano in qualche modo la città, certo, ancora la occupavano, ma non si sparava più, anzi si cantava e si suonava nei primi locali intorno al porto, dove il jazz e il rhythm’n’blues provenienti da oltre oceano si mischiavano alla melodia della canzone napoletana, alleggerendo in qualche modo la fatica della ripresa e favorendo il bisogno di dimenticare. Siamo nella Napoli Milionaria di Eduardo, alle prese con la borsa nera, la ricostruzione dei rapporti sociali e l’anima ferita dalla guerra. L’opera di De Filippo, tra l’altro, esordisce a teatro praticamente in tempo reale, nel Marzo del ’45.
Napoli non è una città, è un mondo, diceva Malaparte, e in questo mondo, la musica ha trovato sempre un habitat naturale da secoli, e il Novecento non fa certo eccezione. Ci sarà una tale ricchezza di generi, di originalità e di invenzioni molto difficile da circoscrivere e ancor più da raccontare in modo concentrato, pertanto questo viaggio cerca di definire i binari principali da cui si sono diramate tantissime altre vie. Analogo discorso vale per i protagonisti, per cui, per non incorrere nel rischio di un inutile e svilente elenco, cercheremo di definire i contorni di alcune cosiddette “scene”, che spesso si sono incrociate e nutrite vicendevolmente, o, in altri casi, sono rimaste parallele, nel tempo e nei modi. I decenni immediatamente successivi alla guerra, nel loro rapporto con la città, sono quelli che cerchiamo di privilegiare per raccontare le tendenze musicali nella Napoli del secondo Novecento.
Zittiti i cannoni, in un silenzio non più carico di timore, si addensavano nell’aria note musicali che trovavano nuovi incastri, ora più audaci ora più tradizionali, in ogni caso ben accolte. Comprendere il grado di separazione tra termini come tradizione, innovazione e rivoluzione in campo musicale è un esercizio interessante, soprattutto perché, in un nuovo brodo primordiale, non mancavano certo intrecci e incroci fecondi, che avrebbero continuato a dare frutti in tutto il secolo a venire.
Sbarca il jazz
“Gli alti comandi militari alleati organizzarono un governo provvisorio con il compito di prevenire rivolte ed epidemie, esercitando il massimo controllo con il minimo coinvolgimento nella vita politica. Pochi mesi dopo, con l’arrivo del nuovo Commissario Regionale Charles Poletti, la logica militare cedette il passo alla necessità di avviare un processo di democratizzazione della societa’, cercando un’intesa con i partiti e migliorando le condizioni di vita dei napoletani.
Un ampio consenso fu ottenuto attraverso un uso sapiente di vari media: gli interventi a Radio Napoli (la storica stazione radiofonica inaugurata nel 1926), le interviste rilasciate alla stampa, le conferenze pubbliche e i comizi. Ma anche attraverso la musica.” Diego Librando
Americani a via Chiaia, 1943
Un militare americano, Robert Vincent, a capo della sezione radiofonica del Dipartimento della Guerra, contribuì molto alla diffusione del jazz, grazie alla sua idea di produrre i V-Disc, i dischi della vittoria, mandando in studio, per una serie di incisioni, realizzate tra il 1943 e il 1947, i migliori jazzisti americani, tra cui Glenn Miller, Benny Goodman, Duke Ellington, Lennie Tristano e Frank Sinatra, a favore delle truppe statunitensi in giro per il mondo. Le migliaia di copie stampate, cominciarono a circolare fisicamente, oltre che a essere trasmesse via radio, e presto anche le strade e i vicoli di Napoli ne furono invasi, sia per le contrattazioni di contrabbando dei vinili, che per le note che sbucavano da finestre e balconi. Allo stesso modo ne furono inondate città di mare europee come Liverpool e Amburgo che ne beneficeranno allo stesso modo, e svilupperanno scene cittadine altrettanto importanti e interessanti. Il 15 ottobre del 1943, per volere dell’americano Giorgio Rehm, rinacque Radio Napoli, che trasmetteva dal promontorio di Pizzofalcone, e dedicava intere programmazioni ai V-Disc, incluso un vero e proprio programma dal titolo “Personaggi del jazz”, seguitissimo, nonostante l’orario proibitivo della messa in onda: dalla mezzanotte alle sei del mattino. Ad animare Radio Napoli ci sono artisti e giornalisti non ancora famosi, tra cui Mario Soldati, Arnoldo Foà, Antonio Ghirelli e Giuseppe Patroni Griffi. Spazio anche ad attori napoletani di teatro dialettale che si esibivano in programmi leggeri e umoristici.
Dopo il 1945, a liberazione avvenuta, Radio Napoli “da trasmittente indipendente”, controllata di fatto dai militari americani, passò sotto il controllo della RAI. L’ente radiofonico ereditò un complesso artistico e musicale di livello. A Radio Napoli era in attività una vera orchestra di musica leggera. Inoltre poteva contare sull’apporto, qualitativamente elevato, delle produzioni del teatro San Carlo che già dal ‘44 presentava opere con cantanti di fama nazionale e internazionale. In quegli anni Beniamino Gigli fu una presenza continua sul palco del teatro partenopeo.” Tutto questo aveva di fatto contribuito ad avvicinare le due sponde dell’oceano e a far scoppiare una vera e propria febbre per il jazz che portò alla nascita di nuovi luoghi in cui poter suonare quella musica, pertanto videro la luce i primi jazz club, così come, poco dopo, i night club, oltre al fatto, che ogni unità navale americana aveva la propria banda a bordo che spesso di esibiva in pubblico anche per favorire una maggiore empatia con la gente.
Le vie della musica
Nel solco delle tradizione classica della canzone napoletana si delineavano due personalità che, battendo percorsi diversi, segnarono e tracciarono una strada che si lasciava alle spalle quel primo periodo d’oro della canzone in lingua, in cui, sui testi, si cimentavano anche poeti come Salvatore Di Giacomo. Un rappresentante del nuovo corso è certamente Roberto Murolo, già campione italiano di tuffi alti, inizialmente interprete di due brani che videro la luce a metà degli anni Quaranta: Scalinatella, termine con cui si indicavano i vecchi itinerari a gradini della città antica e Munasterio ‘e Santa Chiara che racconta della voglia di un emigrante di tornare a casa alla fine della guerra e della sua paura di trovare la città distrutta dalle bombe. Murolo sarà capace, strada facendo, di “inaugurare una sequenza di autori-cantanti-chitarristi dallo stile sobrio e confidenziale come Ugo Calise e Fausto Cigliano”. Murolo recupera il patrimonio storico della canzone tradizionale partenopea innovandone lo stile, più essenziale e intenso rispetto al passato, che col tempo si farà sempre più asciutto ed elegante, cambiamenti che lo porteranno, nella parte finale della sua carriera, a collaborare con cantautori del calibro di Fabrizio De Andrè e al celebre duetto con Mia Martini nella canzone Cu ‘mme, scritta da Enzo Gragnaniello.
Un altro solco è tracciato da Sergio Bruni, artista e ricercatore dall’animo popolare, con un forte legame col suo pubblico, costruito nel tempo e sul campo, tra esibizioni per le truppe di stanza a Napoli e le feste comandate per i suoi concittadini. Bruni recupera la tradizioni dei cantori, servendosi di una voce ricca di sfumature, e, tra vibrati e tremolati di gola, fa emergere dal passato finanche gli influssi arabi e spagnoli, a ricordare le tante influenze culturali e linguistiche soffiate nel golfo. Questa sua vocazione per la ricerca lo porta anni dopo, nel 1994 a incrociare il percorso di Roberto De Simone e della Nuova Compagnia di Canto Popolare, con cui collabora, chiudendo un cerchio iniziato da giovanissimo, passato anche per i suoni del clarinetto. D’altra parte lo stesso Murolo, a conferma di quale laboratorio fosse la Napoli appena post bellica, lo troviamo in una formazione jazz, il quartetto swing Mida, prima di appassionarsi alla chitarra con cui comincia ad accompagnare la sua voce per prendere il volo dal Tragara Club di Capri.
Roberto Murolo con Totò; Sergio Bruni
Napoli diveniva sempre di più un universo musicale in cui si aprivano club, night, circoli del jazz. L’aria di libertà e una ritrovata fiducia nel futuro spingevano molti giovani a rendere concreta la passione per la musica. A pochi passi da Piazza Mercato era nato un ragazzo che la musica ce l’aveva in casa e quando ci fu l’occasione, negli anni Trenta, non ci pensò due volte a imbarcarsi e girare le colonie italiane in Africa, pur di suonare. Al suo ritorno a Napoli, a guerra conclusa, mise su un trio jazz che sintetizzava le influenze che continuava a catturare nell’aria, unendo la tradizione partenopea al jazz, allo swing, fino a sfumature portate dietro dalla permanenza in Africa. Sembrava andare tutto per il meglio, ma ci fu la prima battura d’arresto quando la Fonit liquidò il trio dicendo: “Trovatevi un mestiere serio, lasciate perdere”. Quando le epoche cambiano queste sviste sono frequenti, ancora si mangia le mani il colosso inglese Decca Records, che perse l’occasione di mettere sotto contratto i Beatles, pensando, a inizio anni Sessanta, che il tempo delle chitarre fosse ormai al termine…
Quel trio jazz invece stava inaugurando in quel periodo non solo lo Shaker Club di via Caracciolo, ma anche una nuova epoca musicale. Alla chitarra c’era Peter Van Wood, un olandese che per primo si portò sul palco una pedaliera con gli effetti, alla batteria niente meno che il nipote di Salvatore Di Giacomo, Gegè, capace di percuotere a ritmo qualsiasi oggetto si trovasse sotto mano e alla voce e al piano Renato Carosone, il ragazzo di Piazza Mercato. Gli anni Cinquanta saranno i suoi anni. Insieme al paroliere Nicola Salerno firmerà una manciata di canzoni che faranno storia e che soprattutto fermeranno quel clima musicale e culturale, di contaminazione e sperimentazione, dando una forma di canzone a quell’atmosfera che quegli anni germinava. Imparò a conoscerlo prima l’Italia intera, e poco dopo anch gli Stati Uniti. È stato l’unico italiano, insieme a Modugno a conquistare il mercato americano senza bisogno di essere tradotto.
Molti furono i primati e record che Carosone polverizzò. A metà degli anni Cinquanta il televisore non è più solo un prototipo, ma dà inizio alle trasmissioni, per lo più guardate collettivamente nei bar come punto di ritrovo, prendendo col tempo il sopravvento su tutti gli altri elettrodomestici che cominciavano a riempire le case negli anni del boom economico. I programmi televisivi avevano solo quattro ore di vita, quando Carosone, insieme alla sua band apparve, sugli schermi di tutto il paese, il 3 gennaio del 1954, aprendo un’era che andava ben oltre la musica. Sempre dagli schermi televisivi, cinque anni dopo, Carosone annuncia il suo ritiro dalle scene al culmine del successo. Si limiterà a tener fede a un paio di impegni americani, come la partecipazione all’Ed Sullivan Show, e un concerto al Carnegie Hall di New York. Ritornerà sulle scene molti anni dopo. Ma intanto aveva lasciato una chiara impronta nella rivoluzione musicale napoletana e non solo.
Carosone and friends; poster Beatles/Peppino Di Capri
Ué Man
La presenza americana a Napoli non fu una parentesi legata soltanto alla Liberazione, ma una sorta di presidio permanente che andò avanti negli anni, strutturandosi meglio in una seconda fase anche con la nascita della base Nato di Bagnoli, ben presto riferimento e tappa fissa anche per le flotte che battevano rotte mediterranee e africane. Era necessario dunque per non trasmettere alla città soltanto la sensazione di una forte presenza militare, il bisogno di creare una sorta di empatia, di rapporto con i napoletani che alleggerisse quella percezione. Si vedevano di buon occhio le iniziative a sfondo sociale di aiuto alla parte più povera e maggiormente colpita della città, allo stesso tempo si creavano occasioni di socializzazione. La musica ebbe senz’altro un ruolo fondamentale in questo abbraccio post guerra, anzi a dirla tutta quella americana dell’utilizzo della propria musica era una vera e propria strategia propagandistica, che rispondeva al duplice compito di intrattenere le ore di svago dei militari sia stanziali che di passaggio e di farsi portatrice della cultura d’oltre oceano, eludendo anche i problemi che il jazz, in quanto musica nera, creava in patria, dove innescava tensioni e conflitti razziali, visti i divieti e le restrizioni che l’accompagnavano. Lontano da casa si poteva azzardare, faceva sentire americani i militari di pelle nera e s’imponeva come modello d’esportazione culturale. In questo contesto e in questa linea strategica di continuità avviene il passaggio dal jazz al rock and roll, che dalla metà degli anni Cinquanta conquistava l’America, soprattutto i suoi giovani, e allo stesso modo si faceva spazio anche nel cinema hollywoodiano. Tutto ciò aveva ancora una volta bisogno di luoghi. E anche a Napoli questi luoghi presero forma.
“Molti locali furono requisiti per il divertimento delle truppe e a questi si aggiunsero, poi, un nugolo di clubs che fungevano sia da ritrovo per i militari, sia da spacci alimentari. Erano così numerosi che era possibile decidere di frequentarne uno a seconda della propria arma di appartenenza, religione o nazionalità, ed erano spesso ubicati in edifici monumentali, il che provocò danni talvolta assai ingenti al patrimonio artistico. Inizialmente proibiti ai civili, vennero poi frequentati sistematicamente anche dai napoletani. Molti furono i musicisti locali che, non tanto per passione quanto per bisogno, dovettero adattarsi alla nuova musica degli alleati e apprenderne in fretta gli stilemi, così da trovare posto nelle formazioni musicali che quotidianamente si esibivano nei luoghi di divertimento americani.” Diego Librando
Balli; Carosone allo Scheker Club
È del tutto evidente che quella americana fu una presenza massiccia, duratura e che andava sempre più dotandosi di prorpri luoghi e spazi anche per lo svago e il tempo libero. Tra i club, i night e i locali che nascevano in città, ce n’erano alcuni direttamente aperti e gestiti dagli americani. Negli anni, oltre al già citato Shaker Club, vide la luce il primo circolo del jazz cittadino (CNJ – Circolo Napoletano del Jazz), insieme al Red Cross (nome provvisorio del Teatro Augusteo), mentre nella Galleria Umberto I si stabilì il circolo americano Zig Zag. All’interno della base Nato invece nacquero l’Allied Officer Club, riservato alle alte cariche militari e il Flamingo, accessibile anche a militari non graduati, funzionari e impiegati della base. Nel cuore della città, a Calata San Marco aprirono le porte il Bluebird Enlisted Men’s Club per soli militari e il frequentatissimo U.S.O. club (United Service Organizations), risalito alla ribalta delle cronache per un tragico attentato a fine anni Ottanta, rivendicato dalla sigla terroristica Armata Rossa Giapponese (ARG), a due anni esatti dal bombardamento americano della Libia. L’autobomba ferì alcune persone e uccise quattro civili di passaggio in quella via e una militare portoricana.
Questo circuito che si diffondeva sempre più, viveva dei picchi altissimi di visibilità quando da Napoli cominciarono a transitare anche fisicamente le star della musica, resta memorabile la tappa dei Platters. Molti di questi posti nacquero nel momento in cui dall’America, sfruttando il canale militare, cominciò ad arrivare velocemente a Napoli anche quel rock’n’roll che affascinava sempre di più soprattutto gli adolescenti e che trovava crescente spazio sugli scaffali, tramite i vinili, oltre che sui palchi dei club. Gli americani gestirono anche questa nuova ondata musicale che a differenza della prima aveva un’arma di diffusione in più che era il cinema. Al Vomero, il cinema Arcobaleno cominciava a trasmettere in lingua originale i film di Elvis Presley e di James Dean, e accanto il CPO E7 Club, ospitava i giovani figli dei militari appassionati di rock’n’roll, alimentando il fenomeno dei Teenage club. La musica di Elvis Presley e di Buddy Holly, con tutta l’ondata a seguire, si portava dietro un immaginario nuovo, fatto di juke box e di hamburger, così come di deejay che la selezionavano per farla conoscere grazie a programmi come Good Morning Naples che cominciarono a lanciare nell’etere il twist, il surf, il country, attingendo direttamente alle classifiche Billboard di oltre oceano.
A raccogliere a piene mani gli stimoli a stelle e strisce fu il caprese Giuseppe Faiella, che sostituirà presto il suo cognome con il nome della sua isola. Peppino Di Capri, nel suo percorso nei night e in studio di registrazione segna un felice incontro con il rock’n’roll, con particolare attenzione alla variante twist alla Chubby Checker. Col tempo riesce a mescolare questa tendenza con un approccio classico che viene però modernizzato nelle sonorità. Il musicista caprese sarà molto attento alla rivoluzione del rock’n’roll in tutti i suoi aspetti, (non a caso il suo nome agli esordi con la band, sarà Peppino Di Capri & i Rockers), incluso quello dell’abbigliamento, lo vedremo infatti indossare giacche di lamè e grossi occhiali neri alla Buddy Holly. A lui si devono le uniche riprese dei Beatles, in una delle tre tappe italiane.
Dalle Copielle al Juke Box
Napoli cambia sempre di più faccia, la rivoluzione musicale procede a ritmi vertiginosi, anticipando le tendenze anche sul resto del paese, certamente anche grazie a questa linea diretta con gli States. Erano ormai lontane le Piedigrotte che lanciavano le nuove canzoni, adesso c’erano i club, i night e sempre di più anche i dischi, i concerti, le registrazioni. Anche le case discografiche italiane pian piano si aprivano alla possibilità di nuove pubblicazioni non solo legate alla tradizione classica. Comincia un rinnovamento tecnologico anche nel modo di diffondere la musica. Nel 1959 si smette di produrre i rulli, che sono l’anima dei pianini, quella sorta di carretti spinti a mano, che girando nei quartieri, spandevano musica. Erano stati fondamentali strumenti di diffusione, anche grazie alle “copielle”, dei fogli volanti che contenevano i testi e talvolta il pentagramma con le note del brano, che permetteva a chi volesse di possedere facilmente l’intera canzone. Pare che proprio alla diffusione di quasi un milione di copielle in un solo anno si deve il successo di Funiculì Funicolà (1880), canzone che fermava per sempre un altro momento importante per la storia di Napoli, vale a dire la costruzione nel 1879 della prima Funicolare del Vesuvio, un mezzo di trasporto che permetteva di raggiungere la cima della montagna, godendosi il panorama dall’alto. Il pianino smette di essere prodotto, se non in dimensioni ridotte, come carillon (il meccanismo è lo stesso), soprattutto perché a soppiantarlo definitivamente arriva il juke box, un contenitore di dischi 45 giri, con due canzoni (una per facciata), che con l’inserimento di un gettone permette di scegliere il brano da ascoltare. È parte della rivoluzione rock, perché intorno a questo nuovo aggeggio americano che comincia a stazionare nei bar, iniziano a ballare e a ritrovarsi tanti giovani.
La città dunque si sviluppa, nel bene e nel male, beneficiando del boom economico che tutta l’Italia viveva. Siamo negli anni a cavallo tra i Cinquanta e Sessanta, quelli dell’armatore Achille Lauro sindaco (1961), quelli raccontati da Francesco Rosi nel suo film “Le mani sulla città” (1963), tra sviluppo e corruzione, politica e speculazione edilizia: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”, recita la didascalia del lungometraggio.
I Neri a Metà
Li avevamo lasciati da parte i due neonati, Mario e Gaetano, che intanto sono cresciuti e per di più si sono anche conosciuti. Quello tra loro è uno degli incontri più fecondi per il seguito di questa vicenda musicale che stiamo raccontando. Allora spostiamoci poco fuori Napoli, a Miano, dove Gaetano vive con la mamma, Anna Senese. Il padre è un militare americano giunto in città insieme alla guerra e poco dopo ripartito. Gaetano questo legame con l’America, al di là di tutto, lo sente forte, soprattutto con la musica, e allora sceglie due cose che saranno poi note a tutti: il nome, James (come il padre), e un sassofono. Mario è coetaneo di James, ha solo qualche mese in meno. Hanno molte cose in comune, per esempio, anche la mamma di Mario, napoletana, ha incontrato un soldato portato dalla guerra, un nativo americano, per l’esattezza. Condividono la passione per la musica e a Terzigno non ci mettono molto a scoprire quella voce forte e potente, una voce soul, blues, di quelle che oltre oceano hanno i grandi, come Otis Redding. Anche lui si sceglie gli strumenti da suonare: la chitarra e il basso. Il nome invece non lo cambia, per tutti è e sarà Mario Musella.
Showmen
Le Correnti del Golfo
Gli anni Sessanta sono gli anni del Beat e dell’esplosione del rock’n’roll che si trasforma, prendendo varie sfumature, da quelle più blues, al cantautorato folk e alla psichedelia, per vivere ulteriori mutazioni poi nei Settanta. Napoli continua a crearsi un’identità variegata a livello musicale, essendo capace di assorbire come una spugna tutte le influenze che circolano dalle parti del Vesuvio.
Il tredicenne Giovanni Calone, intanto, passa in un batter d’occhio dal Pallonetto di Santa Lucia ai palchi degli Stati Uniti al seguito di Sergio Bruni che gli riconosce qualità canore non comuni, aprendo di fatto la carriera di quello che diventerà per tutti Massimo Ranieri. Nel frattempo Peppino Di Capri con la sua band a colpi di rock’n’roll apre una delle tre tappe italiane dei Beatles, nel 1965, in piena beatlemania mondiale. Sono anni in cui la canzone in napoletano conquista anche il resto del paese, tanto che il Festival di Napoli è un palcoscenico sempre più ambito anche da fuori regione, e in molti decidono di incidere almeno qualche pezzo utilizzando la lingua partenopea, da Teddy Reno a Giorgio Gaber fino a Domenico Modugno che scrive sia in proprio (Tu si ‘na cosa grande) che a quattro mani, con l’irpino-napoletano Aurelio Fierro (Lazzarella), quest’ultimo fondatore anche dell’etichetta King, oltre che cantante di successo. Addirittura il re del rock’n’roll Elvis, aveva inciso in inglese nel 1960 una versione tradotta di ‘O sole mio (It’s Now or Never). Il rapportarsi con la canzone napoletana è una tendenza che col tempo si affievolirà ma non scomparirà mai del tutto, basti pensare, anni dopo al successo mondiale della canzone Caruso, composta dal bolognese Lucio Dalla.
Mentre i colossi della musica si preoccupavano di acquisire i diritti dei successi rock americani e inglesi, traducendoli in italiano e annacquandone la portata ribelle, Mario e James si preparavano a dare un senso alla loro musica e a costruire sentieri che anche altri avrebbero dopo di loro calpestato. Tra Miano, Terzigno e Aversa nascono le loro prime band. I due si trovano insieme al fianco di Vito Russo. Con i loro fedeli strumenti, danno un contributo notevole al successo di questo progetto che prende il nome di Vito Russo e i 4 Conny, che tra cover di Beatles e Rolling Stones e le prime composizioni originali, comincia a farsi strada, tanto che lo stesso Totò regalerà loro il testo di una canzone (Ischia Mia). Il successo significa anche ricevere nuove proposte, e arriva addirittura la possibilità di un tour negli Stati Uniti, che però sarà la causa principale della fine della comunanza artistica del progetto con Vito Russo. Mario e James sarebbero partiti all’istante, gli altri no, anteponendo questioni personali alla musica.
È a questo punto che per Mario e James prende forma il progetto Showmen, che porterà la musica a Napoli a fare un salto di qualità, anche per tutto quello che metterà in moto. L’energia e l’abilità che proporrà sul campo la band di Musella e Senese, muovendosi tra il rithm’n blues di Otis Redding, Janis Joplin, Wilson Pickett e Chicago, conquisterà in poco tempo l’intera città. L’interpretazione vocale di Musella e il sax di Senese scuotono i sotterranei dei club cittadini, e vederli dal vivo è uno spettacolo, con James che talvolta suona contemporaneamente due sassofoni. Richiameranno l’attenzione delle major (RCA) per cui incideranno brani in italiano e andranno anche a Sanremo, cosa che segnerà un po’ la fine di quell’esperienza. È una band che al suo interno contiene musicisti decisivi anche per la nascente “scena” cittadina, per esempio ne fa parte un altro sassofonista e flautista come Elio D’Anna che fonderà poi gli Osanna, e ci sono anche Franco Del Prete alla batteria e Giuseppe Botta alla chitarra che seguiranno James Senese nella seconda formazione degli Showmen, quella senza Mario Musella che intraprende invece una carriera solista portandosi dietro parte del gruppo, e aggiungendo un giovane Enzo Avitabile al sax. Musella conferma le sue straordinarie doti ma non fa i conti con una cirrosi epatica che lo porta via a soli 34 anni, in tempo però per avere a che fare con un altro giovanissimo che in seguito proprio a Musella dedicherà il suo album di successo Nero a Metà. Ma prima di arrivare a Pino Daniele dobbiamo seguire ancora l’onda del beat che a Napoli invade i tanti locali della città.
Locali, Band e Guappi
La febbre del beat, del rock, prendeva piede, così come era successo qualche anno prima per il jazz, e anche in questo caso si moltiplicano le band e i locali. Le serate si passano a suon di cover di Beatles, Stones, e Moonkees. Pare che soprattutto tra i chitarristi fece notizia una cover di “Gimme Some Lovin” degli Spencer Davis Group, fatta da Lino Ajello, dei Volti di Pietra, che con la chitarra rifaceva i suoni dell’organo Hammond del talentuoso Steve Winwood. I Volti di Pietra sono la band da cui, di lì a poco, nasceranno gli Osanna, mentre Ajello sarà il chitarrista del gruppo partenopea progressive, che cambia nome da Battitori Selvaggi in Balletto di Bronzo, con l’uscita di Raffaele Cascone, (che diverrà un importante diffusore della nuova musica tramite il suo programma Per voi Giovani, funzione divulgativa che poco dopo avrà anche Renzo Arbore), e l’ingresso alle tastiere di Gianni Leone proveniente dalla band La Città Frontale. I locali cominciano a specializzarsi, La Tela del Ragno è famoso per il beat, mentre dedicato al soul ce n’era uno verso Piscinola dal nome La Fogna. In città prende piede il Club 88 a Piazza Carlo Terzo e l’Hit Parade al Vomero, mentre di dimensioni più grandi e più adatto a ospitare musicisti già affermati era il Queen Elizabeth. In questo clima di crescente fermento musicale Napoli chiudeva gli anni Sessanta, assorbendo e cominciando a elaborare a modo suo anche questa ondata sonora che nel giro di pochi anni porterà a quello che sarà poi definito Neapolitan Power.
Ma questo decennio prima di concludersi, consegna alla storia un’altra giornata importante per quanto triste. Nel 1967 a Roma muore Totò. Dopo i funerali romani, la bara arriva a Napoli, dove impiegherà più di sei ore per entrare in città e raggiungere la chiesa, dove l’amico e attore Nino Taranto pronunciò l’orazione funebre, in una marea umana stimata intorno alle 250 mila persone. La gente, e quella di Napoli in particolare, dimostrò di aver compreso da subito l’arte di Totò, senza attendere rivalutazioni postume, a differenza degli “addetti ai lavori” che in genere tendevano a sminuirlo a semplice guitto. Forse il film che avrebbe dovuto finalmente girare con Fellini gli avrebbe reso giustizia anche in vita, ma non ce ne fu il tempo. La Sanità, il suo quartiere, decise per volere di uno “dei suoi uomini importanti, detto naso ‘e cane” che non era abbastanza una sola funzione funebre per il Principe, così qualche tempo dopo, con una bara vuota, se ne celebrò un’altra, che vide di nuovo la presenza sterminata di 250 mila persone. Naso ‘e cane era il soprannome di Luigi Campoluongo, il guappo più rispettato del quartiere, grande ammiratore di Totò, ed era stato di ispirazione a Eduardo per tratteggiare il protagonista (Antonio Barracano) della sua opera “Il Sindaco del Rione Sanità”.