«¿Quiere usted la salvación de México? ¿Quiere que Cristo sea nuestro rey?» / «No».
Chiunque abbia avuto la ventura o l’intuizione di prendere in mano I Detective Selvaggi, libro di culto e, insieme, snodo cruciale dei percorsi letterari a cavallo tra novecento e nuovo millennio, si è imbattuto nell’epigrafe con cui Roberto Bolaño introduceva le peregrinazioni letterarie di Ulises Lima e Arturo Belano. Quelle poche parole non sono tratte da Julio Cortázar, il grande scrittore argentino che per Bolaño semplicemente «es el mejor» ma dal libro di uno scrittore britannico della prima metà del novecento, morto nel 1957 poco prima di compiere quarantott’anni. Quello scrittore era Malcolm Lowry e il libro da cui quell’epigrafe è tratta porta il nome di Sotto il vulcano.
Il nome di Lowry, autore di numerose opere, quasi tutte pubblicate postume, è strettamente legato al suo libro più importante (scritto nel 1947 e pubblicato anch’esso dopo la morte dell’autore) che in questi giorni Feltrinelli ripropone nella nuova traduzione di Marco Rossari che si affianca a quella ormai classica curata da Giorgio Monicelli (1961). Che cos’è Sotto il vulcano, perché è così centrale nella storia della casa editrice fondata da Giangiacomo Feltrinelli tanto da meritare un’edizione speciale per i cinquanta anni, insieme a titoli quali Il dottor Živago di Pasternak, Tropico del Cancro di Miller, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e i Diari del Che in Bolivia, perché, sia detto semplicemente e senza iperboli, è uno dei massimi vertici della letteratura mondiale?
Perché Sotto il vulcano è un romanzo che è riuscito a dar vita a un universo letterario a sé, che si pone come un unicum nella storia letteraria, perché pervaso di una grandezza e di una originalità che consegna al fallimento ogni tentativo d’imitazione, che nessuno spazio concede a scuole letterarie di ispirazione, che è talmente grande da fagocitare e annullare quasi la restante produzione dello stesso Lowry. Perché è stato capace, nel tempo, di costruire uno spazio, un luogo che esiste al di fuori delle pagine scritte.
Con l’avvicinarsi delle processioni che dal cimitero si snodavano lungo il fianco della collina alle spalle dell’albergo, i suoni dolenti delle cantilene arrivavano fino a loro: i due uomini si voltarono a contemplare i cortei funebri, un po’ troppo tardi perché fossero visibili alla malinconica luce dei ceri che volteggiavano in mezzo ai covoni lontani.
Nel suo semplice intreccio, Sotto il vulcano è il racconto di una giornata nella vita del console inglese Geoffrey Firmin praticamente esiliato a Quauhnahuac (Cuernavaca, capitale dello stato messicano del Morales), città alle falde dei due grandi vulcani Popocatepetl and Iztaccihuatl. La storia si svolge il 2 novembre del 1939, El Día de Muertos, e si svolge lungo dodici capitoli come dodici ore del giorno, con un solo capitolo, il primo, in cui a distanza esatta di un anno il Dottor Vigil e il regista francese Jacques Laruelle dalla terrazza de L’Hotel Casino de la Selva ricordano gli accadimenti dell’anno precedente.
In città le luci dell’unico cinema di Quauhnahuac, costruito su un pendio e quindi facilmente riconoscibile, si accesero di colpo, sfarfallarono una volta, rimasero accese. “No se puede vivir sin amar,” disse Laruelle… “Come aveva tracciato sulla mia casa quell’estúpido.”
“Avanti, amigo, levatevelo dalla testa,” disse il dottor Vigil alle sue spalle.
“…Ma hombre, Yvonne era tornata! È questo che non capirò mai. Era tornata da lui!” Laruelle si riaccomodò al tavolo e si versò un bicchiere d’acqua minerale di Tehuacan.
Come ha scritto Nicola Lagioia, Sotto il vulcano “è una delle storie d’amore più struggenti mai apparse in un romanzo degli ultimi cento anni […] la storia del Console Firmin (santo e alcolizzato) e di sua moglie Yvonne, del loro perdersi e ritrovarsi, e amarsi ancora senza riuscire più a raggiungersi sotto il sole implacabile del continente sudamericano”.
Sotto il vulcano è la storia di un amore spezzato e dei tentativi di ricomporlo, di una dipendenza e di un bisogno lancinante dell’amore e dell’alcol. È un viaggio, un sogno, un incubo dentro la mente e il delirio di un uomo ridotto a un fantasma che si aggira nelle poche ore in cui si svolge l’azione tra case coloniali e vecchie cantinas, bevendo e ricordando, rimpiangendo e accusando. È un libro viscerale, costruito sul filo di una molle malinconia, dominato dal calore di un Messico senza tempo.
Sotto il vulcano, «divina commedia ubriaca» come ebbe modo di definirla lo stesso Lowry «sinfonia d’opera o film d’avventura, una profezia, un monito politico, un criptogramma, una musica hot, una canzone, una tragedia, una commedia, una farsa e così via…» è soprattutto un libro capace di far cadere il lettore nella trappola dolce della sua atmosfera, di trasportarlo dentro una nuvola alcolica, in una ricerca ossessiva e disperata dell’obnubilamento della ragione e dei sensi.
È un libro complesso nelle intenzioni e negli esiti ma il caos che sembra dominarlo è solo apparente. Dietro c’è un lavoro straordinario, com’è emerso dalla pubblicazione delle lettere dell’autore: dodici capitoli come le ore del giorno, come i mesi dell’anno, come le aspirazioni spirituali dell’uomo secondo la Cabala. Abbandonando completamente l’artificio del narratore onnisciente, capitolo dopo capitolo Lowry ci costringe a seguire un caleidoscopio multiforme dove si riflettono i flussi di coscienza di ognuno dei personaggi che compongono il racconto (senza che mai due capitoli contigui offrano lo stesso punto di vista): Firmin, naturalmente, sua moglie Yvonne tornata per un ultimo tentativo dal marito che ancora ama e il fratello di lui, Hugh (comunista e sostenitore della Guerra Civile Spagnola) che scopriremo aver avuto una relazione proprio con la moglie del console. È un libro che mette a soqquadro la struttura stessa del romanzo, memore della lezione dell’Ulisse di Joyce, nel quale la coscienza dei personaggi, le loro emozioni, le loro paure, i loro ricordi, le loro proiezioni contano molto di più dei fatti. Attraverso le parole e uno stile che si fa forma, Lowry plasma a proprio piacimento il tempo consegnando al lettore pagine che sembrano pulsare di vita, di sangue, di amore e di dolore.
Le azioni, quelle vere, sono relegate sullo sfondo di un Messico che avverte, lontani ma forti, i venti minacciosi del secondo conflitto mondiale, dove la natura non ha nulla di consolante, dove ogni gesto è ridotto al ralenti, a un’idea di azione che si lascia cadere dentro l’abbraccio mortale di whisky e mescal, dentro a una dimenticanza di sé e del dolore che ci attraversa. Sotto il vulcano è un grido disperato di amore e sofferenza, di una vita ridotta a un’incosciente discesa verso il baratro. È un libro fatto più che della sostanza dei sogni di quella degli incubi, nel quale i fatti riportano il lettore in una maniera cruda e quasi violenta alla stessa realtà che circonda i personaggi.
La grandezza del romanzo sta, va da sé, in tutto ciò che non dice ma adombra, in ciò che nasconde dietro la piega di ogni tornante che ci conduce esausti verso la fine; con quel prologo però, che sembra suggerirci quasi un andamento ciclico. Sotto il vulcano sembra venir fuori quasi da una biblioteca immaginaria di Borges, con una forza che lo rende indimenticabile alla memoria di ogni suo lettore, con quella peculiarità di farsi non racconto-mondo come i grandi romanzi sanno fare, ma addirittura racconto-anima, delirio lucido e sensuale, creazione dionisiaca e disperata di ogni vuoto. E ha ragione Enzo Golino, che di Lowry si occupa fin dal lontano 1964 a scrivere che “Pochi scrittori come l’inglese Malcolm Lowry sanno raccontare il primordiale senso di colpa che accompagna i destini dell’umanità. Più vicino a Conrad e a Melville che a Dostoevskij, l’autore di Sotto il vulcano trasforma l’autobiografico console Geoffey Firmin in un capro espiatorio dell’angoscia metafisica”.
Sotto il vulcano è un libro scrigno, attraversato da una spaventosa simbologia, che si svela di volta in volta, come a cedere sotto l’insistenza di numerose riletture. È un libro autobiografico nel suo senso più alto: le angosce di Firmin sono le stesse di Lowry, medesima la dipendenza dall’alcol, simili e trasfigurate dall’arte quella difficoltà a stare nel mondo e dentro se stessi che porteranno Lowry a ingerire cinquanta pasticche di sonnifero il 27 giugno del 1957.
“Io non ho casa solo un’ombra. Ma tutte le volte che avrai bisogno di ombra, la mia ombra è tua.”
Proprio perché «divina commedia ubriaca», Sotto il vulcano permette un viaggio infinito al suo interno, dando luogo nel tempo a interpretazioni di segni tra le più fantasiose. Così la nuova traduzione è occasione, sì, per riflettere ancora una volta sul libro ma anche invito concreto alla lettura per chi ancora non si è cimentato. Come accade spesso con le nuove traduzioni, il lavoro di Rossari si distingue per una maggiore accuratezza, correggendo alcuni errori e alcune scelte che nella traduzione di Monicelli rendevano il testo poco chiaro, ma allo stesso tempo ci sembra, ma è sempre difficile quando si è così legati alla voce di un libro, che in troppi passaggi un eccesso di pulizia, per così dire, danneggi quel clima anche lessicale di confusione che attraversava la traduzione originale.
Resta intatto il fascino di un libro che appartiene alla storia della letteratura e al cuore di chi lo custodisce, che ha superato ogni avversità, una decina d’anni di gestazione, il rifiuto di tredici editori, la pubblicazione postuma per assurgere a un’immortalità faustiana capace di trasformare un libro in un’infinita allegoria sacra e poetica.