No Love | Sophia allo Spazio 211, Torino

Se si potesse cristallizzare la poetica di Robin Proper-Sheppard e dei suoi Sophia in una sola battuta, non si troverebbe forse nulla di più adatto di quel “No love. No love.” sussurrato con un’ironia malcelata dal cantante, in risposta ad una voce dal pubblico che domandava se ci fosse spazio per quel sentimento. Peraltro, tale scambio giungeva praticamente al termine di un viaggio, lungo quasi due ore, attraverso un mondo costruito con parole sofferte e riflessioni malinconiche, semplice cartina tornasole dall’esito obbligato.

Ma procediamo con ordine: lontano dall’Italia da tempo immemore (se si esclude un’apparizione a Bologna lo scorso maggio), il gruppo arriva a Torino allo Spazio 211 con il chiaro intento di presentare As We Make Our Way (Unknown Harbours), ultimo lavoro intimista della band, che come al solito vede Proper-Sheppard nelle vesti di songwriter. Preceduti in scaletta dal duo Karin & The Ugly Barnacles – notevole la voce di lei -, i cinque salgono sul palco quando la sala è ormai quasi totalmente gremita.

Non ci sono indugi e si parte con Resisting, il singolo estratto, sicuramente il pezzo più carico ed elettrico: il racconto di una sofferenza (“We could have cried all day/And yeah some days I suppose we did) tra accordi di chitarra e batteria, che esplode tutta la sua potenza nei cori, in una sorprendente vena positiva. Ma si tratta di un’anomalia, come appare evidente mano a mano che i restanti pezzi del nuovo album si susseguono rapidi, come tessere di un domino che cadono sgretolando inesorabili l’illusione iniziale. I toni introspettivi e struggenti di The Drifter e Don’t Ask, passando per Blame e per le sfumature sintetiche e taglienti di You Say It’s Allright, sono una carezza sempre più fredda al collo di chi ascolta. Robin, sul palco, è un colosso dagli occhi socchiusi, che ondeggia cadenzato, albero maestro in un mare di slowcore, e il pubblico, ipnotizzato, si spinge sempre più avanti come a cercare riparo sotto le sue vele.  Protetti dalle ballate orchestrali Baby, Hold On e It’s Easy to Be Lonely ci si lascia condurre quieti al termine della prima parte dello spettacolo.

Ciò che si apre dopo è una accurata selezione di perle all’interno del vasto repertorio a disposizione dei Sophia:  da Bad Man a Birds, arrivando alla devastante So Slow, cantata con andatura volutamente rallentata, forse per far ancora un po’ più male. Ma se da un lato per Robin non è abbastanza e raddoppia la dose con un altro estratto fuori scaletta da Fixed WaterAnother Friend -, dall’altro è altrettanto evidente come sul palco le sonorità stiano cambiando, con distorsori e batteria sempre più incalzanti. Il trittico Birds, Darkness e Desert Song No. 2  scava una voragine temporale che sembra portare indietro a più di vent’anni fa, quando il nu-metal dei The God Machine segnava la nascita del mito di Proper-Sheppard. Verrebbe da urlare e chiedere Purity a gran voce, lo stomaco è tutto un contorcersi di sensazioni stridenti, si vorrebbe forse saltare come pazzi, ma non si può che restare immobili, quasi attoniti.

Se come accennato in apertura il dramma esistenziale  è un unico ed indiscutibile contenuto, la forma, lo stile, insomma, l’anima musicale dei Sophia, è invece duplice: si spazia dal folk straziante e senza speranze al metallo battente che colpisce forte togliendo il fiato. A conferma di ciò la versione estremamente potente e rabbiosa di The River Song con giro di basso reiterato-ossessivo a chiudere, e tutta la paura di restare soli urlati in Bastards a fare da contrappeso. Rimane giusto il tempo per un tentativo di registrazione in acustica di There are no Goodbyes e per qualche amara battuta scambiata col pubblico: “Tonight? No tequila. No strippers. No falling in love. No love. No love”, giusto commiato malinconico al termine di una serata che ha visto transitare un pezzo di storia a Torino.

 

 

Scaletta:

Encore:

 

Fotografie a cura di Alessia Naccarato

 

 

Exit mobile version