Sono passati sei anni dall’uscita di The Tree of Life. Pochi film hanno avuto il merito (o la colpa) di spaccare così profondamente in due (per adesso) la carriera di un regista come quello girato nel 2011 da Terrence Malick e premiato con la Palma d’oro a Cannes.
Quattro film realizzati prima, con vent’anni di distanza tra il secondo, I giorni del cielo, uno dei film più belli di sempre, e il terzo, La sottile linea rossa che lo vide trionfare a Berlino nel 1999, quindi The New World, sulla storia di Pocahontas che faceva affondare le radici del male nella nascita stessa dello stato americano.
Fino a quel momento Malick aveva esplorato con risultati straordinari il conflitto esterno e interno all’uomo tra il bene e il male, la spinta verso la scoperta del mondo e quella a chiudersi in un nocciolo di semplicità e autenticità come per il personaggio interpretato da Sam Shepard ne I Giorni del Cielo. Amore, tradimento, violenza e quella sensazione nostalgica di paradiso perduto dentro il proprio cuore o in un’isola del pacifico prima di una battaglia della seconda guerra mondiale, tra le pieghe della provincia americana o nel mito yankee fondato sulla distruzione del popolo dei nativi.
The Tree of Life con i suoi 138 minuti trasferiva tutto questo dentro il nucleo familiare, nocciolo e crogiuolo di ciò che siamo, in una famiglia divisa tra la grazia di una madre e la forza di un padre e, in maniera ancora più sorprendente, dentro a una cosmogonia che entrava nel film sorprendendo gli spettatori, tra eruzioni vulcaniche e dinosauri che riconoscono il dono della pietà e l’immagine di una fiamma a rappresentare Dio che apre e chiude il film. Per la sua grandezza, la sua ambizione, la sua affascinante e sconvolgente bellezza estetica (grazie al lavoro del messicano Emmanuel Lubezki), The Tree of Life sembrava quasi essere il testamento spirituale, immenso e intoccabile di un uomo timido e complesso che non si lascia vedere né fotografare da decenni, laureato in Filosofia a Harvard, traduttore di Heidegger, cineasta amato dal pubblico e ancor più dagli attori con cui ha lavorato e cha hanno fatto la fila a partire dal ritorno alla fine degli anni novanta per recitare in un suo film, intimamente segnato dal suicidio del fratello, tema, questo, che avrà il coraggio di sviscerare finalmente dentro l’albero della vita, con uno Sean Penn straordinario, perso dentro un mondo di adulti, su una spiaggia che, a oggi, è ancora l’immagine,quella salvifica di un paradiso, tra le più potenti nella storia del cinema. The Tree of Life, opera definitiva, summa di un pensiero e di un approccio al cinema e alla vita è diventato invece il modello cui rapportare il lavoro successivo che mai si è completamente distaccato da quell’intuizione filmica e cinematografica insistendo anzi in maniera ossessiva sui primissimi piani, su inquadrature mirabolanti dal basso verso il cielo, contro la luce del sole, in un oscillare continuo tra la materialità della terra e la spiritualità del cielo, dell’aria, della luce.
To the Wonder era così la storia di un tradimento che inseguiva la bellissima Olga Kurylenko tra l’America e le bellezze della Francia, il più recente Kight of Cups con Christian Bale, ci lasciava entrare nell’odierna Hollywood tra donne bellissime e feste esclusive dove l’eccesso diventa la normalità come nel viaggio di un’anima perduta ed errante all’interno di se stessi e delle proprie fragilità.
Song to song, uscito il 10 maggio, settimo lungometraggio del regista di Austin, Texas, è ambientato nella città di Malick e nella scena musicale che la contraddistingue compiacendosi nel mostrare, con occhio autoriale, il mondo della musica live da dentro e da una prospettiva diversa che cancella in un attimo la classica grammatica documentaristica sugli eventi musicali. Flea, Iggy Pop, una sempre intensa e umana Patti Smith recitano se stessi dando al film la cornice che ha permesso, in fondo, a un film di Malick di godere di una grande distribuzione ma al centro della storia in realtà la musica ha un ruolo relativamente marginale. Immersi in un commento sonoro che pesca a piene mani dal rock come dalla sempre presente musica classica (la Resurrezione di Mahler che accompagna ormai ogni suo nuovo film, ma anche Ravel, Saint-Saëns, Arvo Pärt e molti altri) i quattro bellissimi e bravissimi protagonisti danno vita a un complesso intreccio di triangoli amorosi, di avvicinamenti e tradimenti, dentro a piani narrativi che si sovrappongono, si formano e si sfrangiano, dissolvendosi come onde sulla battigia.
I tumulti del cuore e dell’anima sono sul viso bellissimo di Rooney Mara, Faye, l’unico personaggio che ha un nome nel film, che cerca una strada per emergere musicalmente, e per vivere una vita che sia piena e non una parvenza pallida come la sua pelle bianchissima. Il tramite per ottenere ciò che desidera è nello straordinario e mefistofelico Michael Fassbender, produttore musicale che la trascina dentro a un mondo dove lussuria ed eccesso vanno a braccetto. Il terzo lato del triangolo è dato dal giovane, talentuoso e ingenuo musicista interpretato da Ryan Gosling. Mentre solo più avanti, come in un affascinante caleidoscopio apparirà Natalie Portman, cameriera di una tavola calda che sarà coinvolta nelle spire di distruzione di Fassbender. Ruoli più marginali invece per una seducente e affascinante Bérénice Marlohe e la sempre elegante Cate Blanchett.
Il racconto procede per immagini e voice over, frammenti di spazio, d’immagini e di tempo che si mescolano a realizzare un intricato affresco che usa diverse tecniche di riprese comprese GoPro e deformazioni varie. Niente è lineare, festival musicali, un viaggio in Messico, la casa di lui, la casa dell’altro, tra albe che illuminano interni e corpi che si sfiorano, mani che si cercano, che alzano camicie, t-shirt, per baciare pance, tra preliminari e post coiti che lasciano aleggiare il sesso come oggetto di un desiderio non soddisfatto. Malick rinuncia ancora una volta non a una trama ma alla sua messa in scena, lasciando indizi, frammenti d’idee che restano sospesi dentro i pensieri a voce alta di personaggi che si consumano tra paure e speranze, desideri e bassezze. È un continuo perdersi e ritrovarsi, nella propria vita e in ciò che si vuole avere e forse non si desidera davvero ottenere. Song to Song è un inno complesso alla fragilità umana, al bisogno di perdonare ma anche alla legge inviolabile dell’attrazione fisica e a quella, più profonda, dei sentimenti.
Sorprende che a realizzarlo, con sguardo sempre lucido, sia un uomo che ha superato i settant’anni e che ha invece trovato una chiave di accesso incredibilmente forte a una generazione lontana dalla propria. Indagando temi universali, Malick riesce a entrare con incredibile efficacia dentro i meccanismi della nevrosi contemporanea. Se la prima fase della sua carriera era stata, cinematograficamente, all’insegna di un naturalismo panico, in questa nuova fase Malick sembra, evidentemente, essere affascinato da un’estetica che sfrutta gli stilemi della pubblicità, del videoclip e della moda per rovesciarne però il significato. Tutto ciò che è lì superficiale e passeggero qui scava in profondità dentro abissi dell’anima e del cuore, nel fondo del dolore personale, cercando a fatica di trovare una strada verso un sollievo degli occhi, un incontro con se stessi che dia senso pieno alle cose. Misericordia è la parola chiave in tutta la parte finale del film, sorta di viaggio infernale dentro il dubbio e la perdizione, negli errori che compromettono il cammino e lasciano per strada tenui felicità e cupe disperazioni. Ma è difficile tracciare un ordine cronologico degli eventi e resta quasi il dubbio che il film mescoli speranze e vita reali o le carte dei tarocchi di Knight of Cups, come a voler quasi raccontare un’altra storia, stavolta non lineare che non restituisca un happy end.
Il punto centrale è, però proprio il racconto sullo schermo ed è qui che si fanno pressanti le perplessità. Song to song estremizza i difetti che già emergevano nel post Tree of Life: il montaggio esasperato, l’assenza di dialoghi, l’esilità della trama contrapposta all’eccesso di temi che si vorrebbero trattare. Il film sembra perdersi a tratti, come se non riuscisse a tenere insieme incollati i pezzi di una narrazione che se certamente non si vuole classica non può nemmeno essere lasciata quasi al caso. Il solco che si crea tra le intenzioni dell’autore e la comprensione che di queste intenzioni passa per le immagini è a volte troppo profondo, viene meno in alcuni punti e per la prima volta, a tratti, le stesse immagini tradiscono una certa superficialità tanto nella fotografia che nelle inquadrature.
Dall’altra parte è impossibile non sottolineare la presenza di momenti poetici, di strade che ritrovano la magia del racconto e della suggestione, d’idee che ancora possono dirsi fresche, di coreografie dei personaggi (come nel viaggio in Messico) che non possono non richiamare alla mente la Nouvelle Vague e Godard, di squarci d’insostenibile bellezza. E ancora, l’idealismo, il romanticismo, quell’unica capacità del regista di Austin di guardare dentro il baratro con un amore sconfinato per l’umanità tutta.
Song to song è un film profondamente imperfetto, che non riesce a trovare un suo punto focale ma che offre invece una serie infinita di prospettive filmiche, cinematografiche, autoriali e attoriali che non sempre riescono a essere tenute insieme e che lo rendono a tratti estenuante. Resta, nelle intenzioni, un’opera che osa e centra poco il bersaglio ma che è ancora in grado di dire tanto. A settantrè anni Malick prova a sperimentare senza sedersi sugli allori, ed è qualcosa che non può non essergli riconosciuto.
Chi non conosce Malick farebbe, forse, bene a tenersene distante, ma chi lo ama saprà trovare comunque, dentro tante imperfezioni, intatta la sua capacità di creare bellezza.