Finalista al Premio Campiello 2020, Sommersione di Sandro Frizziero, alla sua seconda prova, è uno dei romanzi narrativamente più interessanti di quest’anno. Stilisticamente elaborato, emozionalmente complesso e tematicamente struggente, racconta la storia di un povero diavolo che della vita non ha mai saputo bene che farsene. Un pescatore che alla memoria richiama il Santiago di Hemingway e il capitano Achab di Melville, un antieroe moderno e universale che lotta contro un mare di risentimenti e rimpianti. È un protagonista atipico, quello di Frizziero, un tipo umano che graffia l’animo di chi lo legge e che, nella sua giornata di pesca, ripercorre un’esistenza che, come una gigantesca matassa, tenta di sbrogliare stando accanto a noi. Un personaggio a cui diamo del tu, con cui il romanziere ci fa parlare come in una conversazione intima e profonda. Un uomo a cui, forse nostro malgrado, non possiamo fare a meno d’affezionarci e, forse, con cui alla fine non riusciamo a non immedesimarci. Scandagliando gli abissi di quel mare in cui si muove il Pescatore, il mare che circonda l’Isola in cui è sempre vissuto e che è un grande, piccolo teatro di marionette, ci immergiamo nelle acque nere di una vita fatta di contraddizioni, luci e ombre. Una vita che appartiene tanto a lui quanto a noi.
Perché proprio un pescatore come protagonista?
Il pescatore è, per certi aspetti, una figura mitica. Incarna quel tipo d’uomo perennemente in lotta contro gli elementi naturali e, insieme, che viaggia, esplora. Per questo è capace di trasmettere un senso di avventura (e di precarietà) anche a chi ne attende il ritorno, a terra. Non c’è molta differenza, lo ripeto spesso, tra le donne che sulle rive di Chioggia scrutavano l’orizzonte per avvistare le vele dei bragozzi dov’erano imbarcati i loro mariti e re Egeo, impegnato a cercare, tra le onde, il profilo della nave del figlio Teseo. E poi, come non ricordarci, da lettori, degli eroi-pescatori di Hemingway e di Melville? Tutto questo non può non avermi condizionato nella scelta del mio personaggio. Tuttavia, la mia ispirazione, quella più profonda, più vera, non nasce dal retroterra della “narrativa di mare”, che pure ho frequentato. Per chi, come me, vive in un porto peschereccio, il pescatore è prima di tutto una figura della quotidianità, un lavoratore. Un uomo semplice che sta in mare anche per giorni interi, pesca tra il freddo e la nebbia dell’inverno e si scontra, ogni volta, con tutte le difficoltà che una giornata sfortunata può portare. E quando li vedo seduti al bar, questi pescatori, o passeggiare in piazza, quasi invidio le loro esperienze, i loro ricordi sempre così estremi e affascinanti. Per tutti questi motivi, mi è sembrato che un pescatore potesse dar corpo nella maniera più efficace alla storia che volevo raccontare e ai temi su cui volevo riflettere.
In questo romanzo c’è tutto. Il cambiamento climatico, e la sommersione che ne deriva. La violenza sulle donne, con il racconto degli abusi su Cinzia. L’estrema destra, con gli uomini in taverna che inneggiano a Mussolini. Tuo intento era raccontare il presente, immergerti nel contemporaneo per analizzarlo, o semplicemente pensi che certi aspetti del tempo che ognuno vive non possano essere eliminati – e per questo hanno trovato posto tra le pagine?
Scrivendo Sommersione di certo non avevo l’ambizione di “analizzare il presente”; penso che se mi fossi posto questo obiettivo mi sarei pietrificato. Ma non direi neppure che alcuni elementi del nostro tempo siano scivolati nelle mie pagine del tutto inconsapevolmente, quasi fossero solo lo sfondo della vicenda che racconto. L’isola, per come l’ho immaginata, è il mondo, il mondo in cui viviamo, un luogo infernale dove alcune dinamiche che caratterizzano l’oggi, però, non vengono esplicitate, ma solo suggerite, accennate. D’altra parte, l’oggettività di alcune mie descrizioni è solo apparente. Faccio un esempio, relativo alla violenza sulle donne. Io la presento nel suo aspetto più truce, volgare e quindi più chiaramente identificabile (e condannabile). Si tratta di comportamenti e giudizi che, nel dibattito pubblico, sarebbero indifendibili e che per questo potrebbero apparire fin troppo estremi per essere veri. Mi piacerebbe che dopo aver attraversato questa deformazione grottesca della realtà il lettore, però, ragionasse su come, nel nostro presente, le donne siano spesso vittime di meccanismi discriminatori molto più raffinati, nascosti, e socialmente accettati, in parte anche dalle stesse vittime. Come dire, il male puro dell’isola, al di fuori si mescola, si camuffa, ma agisce ugualmente.
A proposito di Cinzia, la moglie morta del pescatore protagonista del romanzo. Da viva lui la maltratta, la picchia e la tradisce, una volta morta, però, la rivorrebbe con sé. È un feticcio, ormai? O questo personaggio, e quindi con lui determinati tipi umani, è capace di amare solo nel modo in cui l’ha manifestato alla moglie?
Per come lo intendo io, l’amore non può mai accompagnarsi a forme di violenza, anche psicologica, o di dominio sull’altro. Il fatto (problematico) è che il senso di mancanza che l’anziano pescatore protagonista del mio libro sente dopo la morte della moglie, pur con tutte le storture che racconto, certamente rappresenta una forma d’amore che non può essere ignorata. Di fatto, la parola “amore” che identifica uno dei sentimenti più forti e belli, se non il più bello, di cui possiamo fare esperienza nella nostra vita, spesso viene distorta, deformata, declinata a seconda del contesto culturale. Occorre riflettere sulle radici di un equivoco che, purtroppo, non manca di palesarsi nelle maniere più violente.
L’infelicità come compagna di vita. In un passaggio davvero molto bello, paragoni la felicità all’infelicità. La prima non è affidabile, potrebbe svanire da un momento all’altro, quella. La seconda, invece, è una compagna fedele. È una condizione umana comune, secondo te?
Ci sono alcune vite costantemente accompagnate dall’infelicità. È una condizione normale per molte persone. La felicità, per loro, compare di rado, sempre fragile e sfuggevole. Può coincidere con attimi di spensieratezza o d’illusione. E invece il dolore, la sofferenza, il senso di impotenza che provano non appena riprendono coscienza della loro condizione, ecco, costituisce una specie di sottofondo ad ogni azione, ad ogni momento della loro vita. Credo che questa condizione sia molto più comune di quanto si pensa e di quanto siamo disposti a raccontarci.
L’isola pare un confino di natura. Un posto chiuso e concluso. Fuori dal mondo, dal tempo e dallo spazio. Credi che le condizioni definiscano in modo netto le persone che le abitano?
No, non in modo netto. Sarebbe un errore scivolare nel più bieco determinismo, sebbene io sia convinto che il contesto sociale e culturale di provenienza influisca in modo importante nella vita di ognuno. Tuttavia, occorre anche chiedersi quali siano i confini di quello che potremmo definire “libero arbitrio”. Nel momento in cui il pescatore ascolta i suoi istinti primordiali, le sue più violente passioni, che nell’isola possono emergere in tutta la loro totalizzante virulenza, in quale misura è libero di agire e in quale, invece, è schiavo di una dimensione primaria che non riesce a superare? Lo dico, ovviamente, senza nessuna intenzione di giustificare il male che fa.
L’uso della seconda persona singolare, il fatto che tu ti rivolga continuamente al tuo pescatore come a voler intavolare con lui una conversazione, è forse uno degli aspetti più originali del romanzo. Perché questa scelta? È stato complesso?
Il “tu narrante” è una forma davvero molto rara nella narrativa di oggi; in passato lo si utilizzava maggiormente. Mi è servita per esplorare una nuova modalità di avvicinamento e di dialogo col personaggio a mio avviso interessante, considerato che permette al lettore di entrare nella storia in modo, per certi versi, più coinvolgente rispetto alla narrazione in prima persona. Rivolgersi al protagonista con il tu, inoltre, implica un ulteriore elemento di ambiguità, visto che chi legge è costretto a chiedersi di continuo di chi sia la voce che “parla” e quanto attendibile sia. Senza contare che, nel momento in cui il racconto assume il tono della requisitoria, il lettore non può che sentirsi coinvolto assieme al pescatore, perché nel mondo che descrivo nessuno è innocente, pur non essendosi macchiato di crimini così infamanti. A livello pratico, non è stato semplice, ma sentivo che questa era la strada giusta per dire quello che volevo dire.
Il tuo pescatore è fondamentalmente una persona cattiva. Se ha da arrecare del dolore a chi ha attorno, non se ne preoccupa: tira dritto e passa sopra chi gli pare. Credi che il male esista in natura?
Come si può pensare il contrario! Il male esiste come esiste il bene. Anzi, il bene ha tanta forza e tanto valore proprio perché, lo sappiamo benissimo, il male, nelle sue diverse manifestazioni, ha una potenza distruttiva davvero eccezionale e, cosa a cui tengo molto, una volta sperimentato non conduce assolutamente ad un’automatica redenzione. L’odio, l’invidia, la cattiveria determinano la vita degli uomini non meno, e forse a volte di più, dei valori positivi. Per questo io credo sia importante prenderne atto, ragionare sull’assoluta pervasività di questi sentimenti che spesso attribuiamo solo al cattivo di turno. Esistono dentro di noi, nel nostro lato oscuro, e questo è un altro motivo per cui il mio libro potrebbe urticare il lettore: il pescatore è un personaggio, come hai detto tu, assolutamente negativo, eppure in alcune sue movenze, in alcuni suoi giudizi, in certe sue volgarità potremmo riconoscerci. Questo non ci fa piacere, anche se in fin dei conti potrebbe essere solo un modo per ricordarci che siamo solo uomini.
L’Isola. Il Pescatore. Luoghi e uomini senza volto, senza identità. Perché?
Non ho sentito, mentre scrivevo, il bisogno di dare un nome all’isola e al pescatore. L’isola la chiamo così perché è il modo con cui la indica chi la abita. Il pescatore non ha bisogno di nome perché il narratore che si rivolge a lui lo conosce così bene che non ha bisogno neppure di chiamarlo. D’altra parte, credo che così facendo il racconto assuma una sorta di valenza universale che porta il lettore, o almeno così spero, oltre quello che sarebbe potuto essere un ritratto verista della provincia italiana.